“E’ difficile ammetterlo, ma occorre essere realisti; negli ultimi dieci anni non ne sono stato all’altezza.” Una bella occasione per tuffarsi golosamente nella carriera fino a quel momento esemplare di David Bowie, dagli anni ’60 della Swingin’ London alla testa sbattuta contro il muro di Berlino. Un decennio – gli anni settanta – vissuto da incontestato campione, dagli oltraggi di Ziggy Stardust al rigore marziale di Heroes. Sono più di vent’anni che il rock bianco – dai punk agli Suede, da Morrissey a Dinosaur Jr – ritorna a rigenerarsi qui, terrorizzato dall’idea di allontanarsi dal suo modello. Perché dal giorno in cui David Jones ha inventato David Bowie, sia sulla Terra che su Marte, la musica pop, è lui.
Mi sento a casa mia in Svizzera. Ci sono i miei dischi, i miei libri, le mie cose. Tutto ciò che io ritengo indispensabile. Delle radici, non ne ho più bisogno. Sono a Londra e le ho abbandonate dal 1974, Possiedo un pied-à-terre in Giappone, in California, in Indocina, passo da uno all’altro. Sento i miei colleghi lamentarsi, piagnucolare sulla loro triste sorte di star troppo ricche.. Sono felice della mia vita, di viaggiare come voglio io. Non ho più alcun senso di appartenenza a un paese o a una città, sono completamente sradicato e mi sento meglio così. Non ho problemi di identità o di nostalgia.
Durante gli anni ’60, le tue canzoni erano molto segnate da Londra e dai suoi personaggi.
Non avevo mai lasciato la città, non conoscevo nulla del mondo. Avevo trascorso un po’ di vacanze in Francia e in Germania, Londra era il mio unico universo. Ero completamente affascinato dalla mia città. Mi piaceva vederla evolversi, andava tutto così veloce. Nello spazio di una notte, una strada poteva cambiare completamente di stile. Ma me ne sono andato e nel 1974 sono rimasto stregato dagli Stati Uniti. Da sempre ero stato attratto dalla letteratura e dalla musica americana, ma senza immergermi completamente. Non si può fare a meno di innamorarsi degli Stati Uniti quando si arriva dall’Inghilterra. E’ una reazione di fatto prevedibile, che dura per un periodo più o meno lungo. Nel mio caso, è passato, non c’è più amore, non ci sono più occhi spalancati. Ma ciò ha avuto il vantaggio di farmi abbandonare Londra, nella quale poi non ho più abitato. Ci torno spesso, perché ho conservato i miei amici di infanzia, ma l’Inghilterra non mi manca molto. Rivedo i miei compagni di scuola, che conosco da quando avevo otto anni: Geoffrey McCormack – che si faceva chiamare Warren Peace – e George Underwood, che mi ha distrutto un occhio mentre mi pestava di botte. E’ colpa sua se ho un occhio blu e un altro verde. Per colpa di una ragazza che gli avevo fregato. E nonostante questa lite, siamo rimasi molto vicini. George fa il pittore, fa delle decorazioni per i pub e Geoffrey compone musica per jingles, per film. Abbiamo molte cose in comune, ho la fortuna di essere rimasto in contatto con loro, con Mick Ronson, con Carlos Alomar. Tutti coloro che sono stati importanti per me rimasti miei amici. Coloro che c’erano solamente per avere il loro piccolo quarto d’ora di gloria, sono morti anima e coprpo durante il tragitto. Ho allontanato tutti i parassiti.
Da ragazzo, impazzivo per il music-hall, per le cose molto “pompiére”. Mi affascinava. Le mie prime influenze musicali sono molto curiose. Il mio primo spettacolo, prima dei concerti di rock’n’roll, è stato Cabaret, conJudie Dentch. Le luci erano magnifiche, tutte bianche. Anni più avanti, le ho utilizzate per lo Station To Station Tour…Non sapevo che la si chiamasse “illuminazione brechtiana”. Per me non erano che spot molto bianchi, che illuminavano dai lati del palcoscenico invece che dall’alto. Mi ha veramente segnato, è stato molto eccitante scoprire un altro mondo. Mi sono allora informato. Avevo a casa una enciclopedia illustrata, che era la mia bibbia. Funzionava così: mi appassionavo di un soggetto, mi precipitavo sul mio libro e mi accontentavo di una conoscenza molto superficiale del soggetto. Non tentavo nemmeno di entrare nei dettagli, una o due foto e un piccolo riassunto erano sufficienti a rendermi felice. Ma ecco, la mia nuova passione si lanciava su piste diverse. Per la prima volta, leggevo il nome di Brecht, vedevo le foto tratte dai film di Fritz Lang, di Murnau, di Pabst… Si è aperto tutto un mondo, grazie a qualche lampadina bianca (ride).. Mi piaceva il lato da clown triste del music-hall, mi ero sempre sentito vicino a Charlie Chaplin, al Pierrot che interpretavaLindsay Kemp. Il primo colpo, a dodici anni, fu Tony Newley, un povero clown inglese. Mi sono immediatamente riconosciuto in quel personaggio, allo stesso tempo strano e molto solitario. Era l’immagine che cercavo di creare per me. In fondo sognavo di essere solo e incompreso. In realtà credo di non essere stato nulla di tutto ciò. Solo un ragazzo molto egocentrico e terribilmente vanitoso. Cose tipiche da adolescente.
I tuoi genitori ti lasciavano fare?
Si preoccupavano per me. Pensavano che avrei messo i piedi per terra andando alla scuola d’arte, che avrei messo la testa a posto – come il mio amico George – intraprendendo la carriera di grafico commerciale. Mi vedevano già sgobbare dietro un bel bancone, nell’equivalente londinese di Madison Avenue…. La musica li faceva diventare matti. Mia madre non mi ha mai aiutato, mai incoraggiato. Solo mio padre mi sosteneva. Per loro, l’arte e la musica erano dei mondi sconosciuti. L’unico musicista della famiglia era il padre di mia madre, che suonava malamente la tromba. Siamo una piccola tipica famiglia della classe operaia, con vita ordinata e monotona. Nulla di magico, nulla di brillante. Ho capito che questa vita non faceva per me a otto anni, quando ho ascoltato Little Richard. Quello fu lo scatto, la rottura. Quindi, ero sicuro che la mia vita non sarebbe terminata nella periferia a sud di Londra. Little Richard non era mai venuto in Inghilterra, di lui si conoscevano solo le foto e i dischi. La sua musica era così potente. E’ stata la chiave che mi ha fatto entrare nel mondo di Chuck Berry, dei pionieri… Un incredibile terreno di ricerca, sul quale si avventarono i giovani inglesi. Io, ero un po’ più giovane, ma mi sono tuffato come gli altri nel rhythm’n’blues. Da allora nient’altro ha contato per me. Ho costretto mio padre a comperarmi un saxofono. Il mio povero vecchio… Ho preso delle lezioni da un musicista jazz molto famoso in Inghilterra, Ronnie Ross. Dopo sette lezioni pensai di saperne abbastanza per non andare più al corso. Ecco fino a che punto sono capace di immedesimarmi in una passione, negli studi: qualche lezione e ho l’impressione di sapere tutto. Sono così superficiale… solamente l’arte ha avuto ragione sulla mia pigrizia, sulla mia mancanza totale di coinvolgimento. Colleziono libri d’arte, posso leggere opere dedicate al Rinascimento per giorni interi.
Da dove ti è venuta questa passione, verso la quale il tuo ambiente non ti favoriva?
Dalla mia curiosità. E da Terry, il mio fratellastro. Ha sempre incoraggiato il mio individualismo, mi ha incitato a seguire sempre la mia voce. Mi diceva sempre di rifiutare i libri che mi venivano consigliati a scuola, tentava di passarmi la sua passione per il jazz. E’ senza dubbio grazie a lui che sono andato da Ronnie Ross invece che dal professore di saxofono del quartiere. Volevo il meglio, anche se avevo dieci anni. In Inghilterra, era un età molto precoce per interessarsi al jazz, un tipo di musica più adatta agli adulti. Sono certo che non riuscivo a capire del tutto ciò che ascoltavo, ma comperavo degli album di Miles Davis, Eric Dolphy o John Coltrane. Era il mio modo di staccarmi dal mio ambiente famigliare, di penetrare in un altro mondo, nel quale non avevo alcun posto. Questo universo i neri americani era così lontano dal mio.. Era alternativo alla realtà dalla quale cercavo in tutti i modi di staccarmi. All’inizio comperavo i dischi solamente perché erano di moda, ma ho finito per amarli col passare degli anni.
Come potevi essere così sicuro di poter scappare dalla periferia londinese?
Era fuori da qualsiasi mio pensiero il fatto di rimanere là, di trovarsi un lavoro e di mettere la testa a posto. Era o l’arte o nulla. Non ho mai immaginato un’altra strada.Il mio periodo della scuola è stato atroce. Ero un mediocre scolaro, incapace di concentrarsi, di interessarsi. Restavo sempre nel mio angolino. All’inizio ero molto timoroso, quieto. Ma poi sono diventato uno sbruffone, uno sbraitone. Sentivo che tutto quella bolgia non mi sarebbe servita a nulla, mi ero già votato totalmente alla musica. Come ci si può interessare di matematica quando ci si è a tal punto ficcati nel mondo dei sogni?
Il tuo pezzo Kooks dà del tuo periodo scolastico un’immagine molto cruda.
Non era poi così dura e me la sono cavata con facilità. Non mi sono mai picchiato, e non mai dato l’impressione di venire da un ambiente svantaggiato. Vivevo un’esistenza confortevole dal punto di vista materiale. Molto meno dal punto di vista emotivo. Nel quartiere non era bene essere troppo sensibili. Non sono mai stato attorniato da molti affetti, e ciò mi ha ferito. Le persone non erano molto vicine le une alle altre, ne ho sofferto molto. Questo mi ha confortato durante i miei momenti di vittimismo (ride)… C’erano dei gruppi di giovani che si trascinavano in giro nel mio quartiere, dei teddy boys e dei motociclisti, ma non ne avevo paura. Oggi me ne rammarico. Camminare con la fifa nello stomaco, mi avrebbe dato dei begli aneddoti da raccontare (ride)…
Facevi parte di uno di questi gruppi?
Lo avrei voluto, ma non me l’hanno mai proposto. C’era soprattutto una banda di motociclisti alla quale io sognavo di appartenere. Partivano tutti insieme per andare a ballare all’Orpington e prima di entrare nel club, sostituivano le loro giacche di pelle con abiti lunghi da teddy boy, che arrivano fino alle ginocchia. E portavano delle scarpe con delle enormi suole di para…. Era il loro vestito della domenica, opposto al cuoio che indossavano per il resto del loro tempo. E’ là che io ho visto per la prima volta un concerto rock. Era così rumoroso, così nuovo. Ho fatto veramente di tutto per unirmi a quel gruppo. Il loro capo si chiamava John Gill, che poi è diventato Gilly, uno dei nomi che ho utilizzato per i personaggi della canzone Ziggy Stardust. Era straordinario, piantato come una roccia, ma con gli stessi occhiali di Buddy Holly. Un toro selvaggio, con questo giubbotto di pelle e questi occhiali delicati. Si sarà creduto nel film The Leather Boys (un classico film omosessuale degli anni cinquanta)… Viaggiava su una Vincent 1000, una moto cromata e scintillante. Sono riuscito alla fine a conoscerlo, mi ha anche portato a fare un giro una o due volte. Andava molto veloce, ero morto di paura. Ma non ho mai fatto parte del suo gruppo, non era nelle mie corde. Non ero sicuro di me stesso, la presenza degli altri mi bloccava totalmente. Non ero molto esuberante, nemmeno interessante. Preferivo rimanere solo nel mio angolino a osservare.
Qualche anno più tardi, sei diventato un mod, come i migliori inglesi.
Sono rimasto alla periferia del movimento, non sono mai diventato un vero mod. Andavamo appositamente nei club alla moda, ma non facevamo conoscenza con nessuno. Non osavo abbordare, non sapevo come destare interesse. Eravamo vestiti uguali, ma io guardavo gli altri. Avevo paura, ero davvero troppo timido. E’ per questo che ho iniziato a scrivere delle canzoni come London Boys, nella quel finalmente vivevo nella pelle di quei mods. Nella mia carriera, ho incontrato molte persone che hanno vissuto esattamente le stesse esperienze. Quando abbandonano la scena, ritornano timidi e spaventati. Ma sulla scena, arrivavamo a diventare qualcun altro, qualcuno di forte e fiero. E’ una combinazione chimica che non capirò mai. Tu non hai idea dei problemi psicologici delle star (ride)… I mods, ne sono certo, non mi hanno nemmeno mai notato. Era come se non esistessi.
Era questo che rendeva Londra e la sua vita notturna così attraente per te?
Era una reazione alla mediocrità della mia periferia, alla sua vita noiosa, al suo tedio. Non c’era nulla da fare, se non farsi menare. In un quartiere – il più duro – c’era un piccolo bar, dove era fico stare a bivaccare. Tutte le bande giravano intorno, ci andavi a tuo rischio e pericolo. Era un sollievo potere salire a Londra, soprattutto a Healing, dove nei piccoli club mettevano su i Rolling Stones, i Trident o gli Yardbirds. Ci andavo con George Underwood, il mio complice. Avevamo quindici anni, maniaci di rhythm’n’blues. Eravamo molto precoci nei nostri gusti musicali. Ogni volta eravamo i più giovani, comunque sia a tredici anni nei club locali o a quindici nelle discoteche di Londra.
Come è possibile che dei ragazzini di quindici anni si appassioni di gruppi allora sconosciuti?
Londra è sempre stata molto snob. Era quindi piuttosto facile essere sempre aggiornati, bastava stare all’erta per sapere mesi prima di tutti quello che sarebbe andato per la maggiore. Eravamo veramente la punta più avanzata, ed era questo che ci rendeva importanti agli occhi degli altri. Ci occorreva giudicare prove alla mano ciò che valevano i gruppi di cui decantavamo i meriti. Non rimanevamo mai delusi. Eravamo ossessionati dalla musica. Il più figo di tutti era Warren Peace. Lui ascoltava solo James Brown . Era lo stadio superiore, il cuore stesso del soul, la meta ultima mentre noi non che eravamo arrivati ai bianchi inglese, al rhythm’n’blues. Non andavamo più lontano di John Lee Hooker o Jimmy Reed. James Brown era troppo sofisticato, troppo adulto.
Allora gli swinging sixties sono stati una realtà?
Londra era una polveriera, l’irresponsabilità regnava (ride)… La droga iniziava giusto a spuntare. Più pasticche che erba. Acidi, anfetamine: quelle blu, quelle rosse. Tutti erano sovraeccitati. Mi ricordo ancora di mal di testa che queste porcherie facevano venire. Poi si mescolava all’alcool. Le pasticche, erano davvero appannaggio dei mods. Vivevano solo grazie alle anfetamine che permettevano loro di ballare e di trascinarsi per tutta la notte. L’eroina arrivò più tardi, alla fine degli anni sessanta.
Che cercavi nei locali?
Volevo vedere e capire quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco ad una nuova moda che stava per arrivare. Non desideravo nient’altro che locali. Ci andavo sia per l’esperienza sia per riempirmi le orecchie. Per il volume alto, per ascoltare Georgie Fame, per scoprire il jazz.
Mai per le ragazze?
Ah sì (ride).. Era senza dubbio, sullo sfondo, la ragione principale per uscire. Le ragazze erano parte integrante della serata, allo stesso livello della musica o delle pasticche. Era un tutt’uno. Oggi, la gente pensa che io fossi un vero emarginato, un oltraggioso. Ma ero invisibile, nessun mi vedeva. Fino al giorno in cui mi sono tinto i capelli di rosso. Là, per la prima volta, sono stato notato (ride)… Era nel 1971, durante la registrazione di Ziggy Stardust. Cercavo di crearmi un personaggio per portare questo album sul palcoscenico. Andai a vedere Arancia meccanica al cinema e caddi in uno stato di ammirazione di fronte agli abiti delle bande di teppisti: abiti con chiusure lampo, scarpe da catch, bande sugli occhi… Adoravo il lato violento di questo look, ho voluto renderlo assurdo, vaudeville. Sono andato al reparto tessuti di Liberty e ho acquistato ciò che avevano a disposizione di più ridicolo, di più vistoso. Uno stilista ci ha fatto gli abiti, nei colori i più vivi e ripugnanti. Siccome avevo lavorato con Lindsay Kemp, sapevo come utilizzare il teatro, come adattarlo alla musica. Avevo quindi i miei nuovi abiti, il mio nuovo colore di capelli. Non mi rimaneva che prendere in considerazione il trucco. I capelli rossi, ho preso l’idea da un articolo di Harper’s & Queen consacrato alle novità diKansai Yamamoto. Non avevo visto mai abiti tanto forti, tanto sofisticati. Ma non potevo prendermeli. Solo gli stivali – ispirati dal teatro kabuki – costavano ventotto sterline, una fortuna per l’epoca. Sono andato dal mio calzolaio che me li ha fatti per otto sterline (ride)… Ho poi incontrato Kansai qualche mese dopo. Lui e sua moglie mi hanno accolto con molta ospitalità in Giappone. Mi ha offerto dei fiori, sono tornato a casa con un baule pieno di vestiti. Ci ho tirato su il secondo look di Ziggy Stardust & The Spiders From Mars. Negli anni sessanta cambiavo mise quasi tutti i giorni. Pigliavo da destra e a manca, ma senza che io inventassi qualcosa di mio. Una delle ragioni del mio successo viene da questa capacità di riunire elementi diversi, di dare corpo a questi furti. E’ l’influenza dei collage di Burroughs, il cui libro Junkie (Ndt.: La scimmia sulla schiena nell’edizione italiana) era il mio libro da comodino negli anni sessanta. Ho utilizzato molto la sua tecnica di taglio (Ndt: cut-up) per comporre i miei testi. Ziggy Stardust non sarebbe esistito senza Wild Boys(Ndt.: I ragazzi selvaggi nell’edizione italiana) e quando ho incontrato Eno – i Roxy Music hanno fatto da supporto molte volte nel 1972 – mi ha confessato che anche lui ha copiato da questo modo di scrivere. Ci intendiamo bene io e Eno…. Una inclinazione comune per Duchamp, Burroughs, i film espressionisti. E’ stato così divertente applicare tutte le teorie dell’avanguardia alla musica pop. Ero tanto eccitato quanto lo ero nell’epoca in cui scoprivo tutte le cose nuove del rhythm’n’blues con George. Ero così elitario, così snob. Ho sempre disprezzato la musica del mainstream, solo i suoni nuovi mi eccitavano. E ancora, mi lasciavano molto velocemente. Succedeva che tutto andava veloce, solo le cose nuove mi piacevano. E poi, contrariamente alla maggioranza dei ragazzi, leggevo moltissimo e mi piacevano film strani, come Un Chien Andalou(Ndr: film di Luis Bunuel e Salvador Dalì – 1929) e il Gabinetto del dottor Caligari (Ndr: di Robert Weine – 1920).
Lo snobismo era l’unica motivazione per andare a vedere questi film?
Era il motivo iniziale. Ma non facevo fatica a restare allo spettacolo, mi piacevano davvero quei film, quei libri. Il fatto che fossi l’unico della mia età a interessarmi di quelle cose rinforzava il mio interesse, esattamente come con il jazz. Mi interessavo a queste cose per fare il furbacchione e improvvisamente acquisivano un’importanza considerevole nella mia vita. Andando avanti un po’, scoprii il surrealismo, Dada, e anche là, mi ci tuffai… Avevo aperto una buona porta, tutte le strade mi portavano in direzioni appassionanti. Tutti questi opere di origine diversa si immagazzinarono dentro me. All’epoca di Ziggy Stardust, c’era un autentico ribollimento interiore che non aspettava altro se non di uscire. Bisognava che, in un modo o in un latro, lo esteriorizzassi. Ziggy era questo: delle idee raccolte in tutte le discipline e lasciate macerare insieme per molto tempo.
Parli molto di moda, di snobismo, di recuperi. Eppure i tuoi primi dischi ti rivelano un autentico autore, un artigiano più che un mistificatore.
Non mi ricordo più perché ho iniziato a scrivere canzoni. La maggior parte delle canzoni del mio primo album, uscito nel 67 per la Deram, erano delle piccole narrazioni. La mia ambizione era quella di diventare un narratore. I miei testi erano allora così ingenui, così curiosi… Eppure, alcuni sono molto più oscuri e disturbati di quanto sembri. Mi ricordo di aver scritto una canzone su un becchino, Please, Mr. Gravedigger. I film e i libri che mi appassionavano, influenzavano davvero la mia vita, la mia scrittura. Ho compreso più tardi che ero più portato a creare delle atmosfere, degli ambienti che alla narrazione pura. Ma mi stavo ancora cercando, ignoravo ciò di cui ero capace. L’importante era scrivere. Già a scuola buttavo giù qualche storiella, l’inglese era l’unica materia che mi piaceva. Era il debutto dei Beatles,di Dylan, l’avvento del cantautore…. Vedevo tutti questi gruppi che cantavano i loro pezzi, sapevo che valevo quanto loro. Eppure, all’inizio, sono stato un cantante prima di essere autore. Avevo il mio gruppo, i Kon-rads, ci accontentavamo di riprendere le canzoni di successo della Top 20. All’inizio non ero che sassofonista. Ma una sera, il nostro cantante, Roger Ferris, si fece picchiare da dei motociclisti davanti a una discoteca di Orpington. Lo sostituii quindi lì per lì. Sfortunatamente, non conoscevo le parole delle robe che cantavamo, sapevo solo cantare il pezzo di Little Richard. Abbiamo finito per insultarci, perché loro erano felici di limitarsi ai Top 20, mentre io volevo cantare del rhythm’n’blues. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando si sono rifiutati di farmi rifare Can I get a witness di Marvin Gaye. Là li ho piantati in asso. Dovevo avere quindici anni e ho formato un altro gruppo. Passavo da uno all’altro senza sosta: i King Bees, i Mannish Boys, i Kon-rads, i Lower Third… Ce ne erano un centinaio, con abiti e nomi uno più ridicolo dell’altro. I Lower Third scopiazzavano vergognosamente dagli Who. Abbiamo fatto loro da supporto in una o due occasioni, mi ricordo di avere discusso dietro le quinte con il mio eroe di allora, Pete Townsend. E’ anche venuto una volta a vederci, mi rimproverò di non essere che un altro che copiava (ride)… il mio primo gruppo ad avere un debutto di un qualche interesse si chiamava Hype. Tony Visconti era al basso, Mick Ronson alla chitarra, John Cambridge alla batteria e io alle tastiere e alla chitarra ritmica. Mi ricordo di un concerto del 1970, alla Roundhouse, durante una sfilata di moda. Tutti ci ignoravano in modo principesco, ad eccezione di un tipo. Un tipo da solo, che ballava come un matto con un specie di abito medievale acquistato da Woolworths. Era venuto a sostenerci perché era un amico del gruppo. Era Marc Bolan. Noi eravamo vestiti da Superman, doveva essere un spettacolo davvero grottesco. Secondo me fu davvero il primo concerto di glam rock. Dato nell’indifferenza generale.
Eppure in quel periodo Space Oddity era già un pezzo di successo.
Il mio album per la Deram era già uscito, Man of words/Man of music – rieditato qualche anno dopo con il nome Space Oddity – e The Man who sold the world. Tre album e non era successo nulla. Con gli Hype, credo suonassimo soprattutto dei pezzi di The Man who sold the world, delle cose un po’ nervose come Width of a circle. Pensavamo che quei brani abbastanza duri interessassero di più che i momenti molto oscuri di questo album. Eppure, canzoni come After all erano molto più intriganti, più strambe, ci utilizzavamo gia i sintetizzatori. Ma in concerto, non volevamo prendere il rischio. Si pensava ne prendessimo già abbastanza di rischio con il nostro modo di vestire… Noi eravamo i primi a osare una tale immagine dopo i gruppi psichedelici della metà degli anni sessanta. Questa tradizione molto forte del gruppo inglese “travestito” era oramai moribonda. Si ingigantisce molto Ziggy oggi, ma non era una gran cosa. Gli abiti dei Kinks erano altrettanto folli negli anni sessanta. Anche i Beatles e gli Stones si travestivano, faceva parte del loro gioco. Si è parlato molto di The Rise And The Fall Of Ziggy Stardust come di un capolavoro. Abbiamo solo avuto l’occasione di uscire in un periodo molto lugubre. Portammo un po’ di colore, un po’ di casino. Ma a parte questo, non è un album fantastico. Le canzoni sono abbastanza deboli, piuttosto striminzite. Aladdin Sane e, soprattutto Diamond dogs, sono molto più impressionanti. Eppure, dio lo sa quanto la critica ha silurato Aladdin Saneall’epoca… Su quei due dischi ho utilizzato molto la tecnica del collage rubata a Burroughs.Questo spiega l’aspetto molto frammentato dei testi. Nel periodo in cui registravo Diamond Dogs allo studio Olympic, Eno stava abbozzando Here come the warm jets. Non appena lasciava lo studio, andavo ad ascoltare i suoi nastri, a vedere a che punto era arrivato. E so che mi spiava nello stesso modo. Eravamo molto sorpresi dalla similitudine della scrittura a collage. Che disco strano, Diamond dogs… Il mio primo album interamente registrato sotto l’influenza della cocaina. L’ingegnere del suono in quel disco, Keith Harwood – Dio l’abbia in gloria – prendeva anche lui molta coca. L’avevo fatta finita con gli Spiders From Mars e mi ero messo un testa di suonare tutti gli strumenti, a parte la batteria, in cui sono stato sempre zero. Stavo quindi la maggior parte del mio tempo solo con Keith, era una furiosa follia. Avevamo totalmente perduto la nozione del tempo, a volte siamo rimasti tre giorni e tre notti di seguito nello studio senza rendercene nemmeno conto. Oggi sono sbalordito dalla coerenza dell’ album. Bisognerebbe riflettere sul caos che l’ha visto nascere.
Hai detto prima di avere provato una dozzina di gruppi e di stili. Seguivi una qualche linea direttrice?
Era assolutamente a zigzag. Non controllavo assolutamente la mia direzione, mi lasciavo portare da tutti i miei diversi centri d’interesse, che cambiavano di settimana in settimana. Agli inizi degli anni settanta, tutte le passioni che avevo avuto fino ad allora – da Little Richard al rock degli Stooges passando per Burroughs – si sono fuse in una sola. Là, ho veramente saputo che ero maturo, che avevo finito di toccare tutto e che potevo finalmente decollare. L’impressione di essere su un trampolino e di contemplare la piscina con spavento. Ma ecco, per la rima volta, salto. Prima del 1970, ero in apprendistato. Come una spugna, assorbivo tutto: i libri, i film, i vestiti, i dischi, la personalità degli altri. Ma nel 1970, sono diventato me stesso.
Questo “me stesso” a giudicare da The Man who sold the world era molto disturbato. Ho raramente sentito brani tanto torturati e disperati quanti After all e All the madmen.
Ero molto preoccupato dallo stato di sanità mentale di mio fratellastro Terry, che era a quel tempo in ospedale in un istituto psichiatrico. Lo curavano per schizofrenia e nevrastenia. A volta veniva a trascorrere il weekend da me. Era spaventoso perché riconoscevo in lui alcuni tratti della mia personalità. Avevo paura di sprofondare a mia volta nella malattia, nella follia….Il mio modo di scrivere ne ha fortemente risentito (silenzio)… E nell’85 si è suicidato. Si è buttato sotto a un treno. Fino a poco tempo fa non parlavo di lui a nessuno, mi faceva stare troppo male. Avevo scritto per lui una canzone su Hunky Dory, The Bewlay Brothers.Jump, sul mio ultimo album, rievoca la sua sofferenza, la sua fine tragica. Lui è fisicamente saltato nel vuoto. Molti dei miei zii lo avevano fatto prima di lui. Il suicidio è molto comune nella mia famiglia. I miei salti sono più metafisici. Salto nel vuoto, senza guardare.
Musicalmente, l’album The Man who sold the world rappresenta una frattura.
Avevo dei nuovi modelli, come i Velvet Underground e Syd Barrett. E’ curioso il fatto che non fosse Lou Reed ad attrarmi dei Velvet. Per me, il suono del gruppo, era John Cale. Questo è stato confermato qualche anno dopo, quando ho lavorato con Lou per Transformer. John era l’elemento sovversivo del gruppo, uno dei musicisti più sottostimati della storia del rock. Quel tipo è un pericolo, un vero personaggio. Non conosco nessuno tanto terrificante e buio quanto lui, farebbe passare Lou Reed per un chierichetto (ride)… Negli anni settanta, si siamo trascinati in giro insieme, tutti e due, in un brutto stato. Dai vaghi ricordi che custodisco dei nostri giri, John amava flirtare col pericolo. Mi ricordo pure un litigio al coltello un giorno… Tutte queste leggende che circolano su Keith Richards, John Cale le ha vissute dal di dentro. Abbiamo lavorato insieme alla fine degli anni settanta, per il festival Here comes the new-wave. Questo andava alla Brooklyn Academy of Music. Steve Reich, Phil Glass e John Cale erano i maestri di cerimonia e John mi ha invitato ad unirmi a loro. Ero inquieto, mi aveva solo detto di unirmi a loro nel giorno del concerto e di non preparare nulla. Quando sbarcai, un quarto d’ora prima di montare sul palcoscenico, dietro le quinte, mi ha suonato un suo pezzo molto rapidamente. Gli ho detto: “Ok, vuoi che scriva velocemente un testo?”. Mi rispose: “Non sei qui per cantare, prendi questo!” e mi rifilò un violino elettrico, che fino ad allora non avevo mai suonato. Morivo dalla paura. “John, ma sarò ridicolo.” “Sì, con un po’ di fortuna, è quello a cui vai incontro” (ride)… Mi ha mostrato qualche nota, mi sono ritrovato sul palco con lui, senza sapere che mi sarebbe successo. Ho suonato molto in fretta, per finire il più velocemente possibile. Una esperienza meravigliosa. Per ritornare alla domanda, avevo anche una profonda ammirazione per Syd Barrett. Lui e l’attore Tony Newley erano gli unici due a tentare di cantare con un forte accento londinese. Quando cantavo “Oh baby” (con un forte accento cockney) in Ziggy Stardust, era per rendergli omaggio. Amo questo lato molto inglese.
Eppure ci sono delle influenze più continentali, come Jacques Brel.
Li ho scoperti attraverso il cabaret. Mi sono allora interessato alla Piaf, a Brel. Ammiravo la sua capacità narrativa. Sono andato a vedere una commedia musicale messa su a Londra da Mort Shuman, Jacques Brel is alive and well and living in Paris. Mi sconvolse. Più tardi, ho sentito le sue canzoni interpretate da Scott Walker. Era ancora meglio. Lo ammiro molto e un giorno mi inviò uno dei suoi dischi, Nite flights. Credo sia stato molto influenzato da Low e da Heroes, che io avevo appena terminato con Eno. Eno ed io rimanemmo davvero molto impressionati da quel disco. Qualche anno dopo, sono entrati in studio assieme,ma non è venuto fuori nulla. Mi ha rattristato il fatto che non siano riusciti a capirsi, il risultato sarebbe stato fantastico. Ho una profonda ammirazione per lui, è per rendergli omaggio che ho ripreso Nite flights sul mio ultimo album. Sono sempre stato molto attento a rimandare l’ascensore indietro a chi mi ha influenzato. Se amo un artista, ci tengo a condividerlo. L’ho fatto con Lou Reed, con Iggy Pop. Ero molto conosciuto e, dal momento che mi si ascoltava, ne approfittavo per aiutarli. E’ per questo motivo che ho fatto Pin-ups, un album di cover, nel 1974. Non lo si dirà mai, resto un fan.
Eri anche un fan del rhythm’n’blues. Come hai scoperto i Velvet?
Li ho scoperti molto presto, nel 1966. del resto, dovevo essere l’unica persona la mondo a possedere un test-pressing, firmato da Andy Warhol, del loro primo album, la banana. Il mio manager di quel periodo era andato a New York, dove aveva incontrato la crew di Warhol. Gli avevano chiesto di occuparsi dei Velvet in Inghilterra, di farli venire in promozione. E al suo ritorno mi ha dato il disco. E’ tutto rigato (ride)… Ero così contento di possedere quei dischi mesi prima degli altri, di non ascoltare la musica che ascoltavano tutti; la mia unica concessione al mainstream, erano le canzoni dei Beatles formate da Lennon, qualche brano diPresley, Little Richard..
E Vince Taylor?
Oh, non la sua musica! (ride).. E’ la sua personalità che io ammiravo. Ziggy, era lui, mi sono servito di Vince per creare il mio personaggio. I suoi dischi erano atroci ma lui era un eroe. Ho girato un bel po’ per Londra con lui, prima che se ne tornasse a Parigi. Doveva essere il 65 o il 66. la sua carriera era già fottuta, sragionava del tutto. Che tipo! Credeva di essere un extraterrestre o il figlio di Dio, un giorno, mi ha fatto scendere alla stazione della metropolitana di Tottenham Court e là, in mezzo a centinaia di passanti, ha disteso per terra una vecchia cartina del mondo. Eravamo tutti e due in ginocchio, a muoverci con fatica su questa cartina. Non mi sono mai tanto vergognato. Mi voleva mostrare il punto esatto in cui gli extraterrestri avevano nascosto la loro base sottoterra (ride)… Quando morì, ho appeso con rabbia che abitava da qualche anno a qualche chilometro da casa mia, in Svizzera. Se solamente lo avessi saputo, mi sarebbe piaciuto molto rivederlo. La sua vita è stata una tale tragedia… Ma all’epoca, ero affascinato da personaggi come lui. Quei tipi oscuri e malsani – Lou, Iggy, Syd, Brel – mi hanno sempre attirato. Toccavano i tabù, e questo mi faceva traballare. Ho letto recentemente le tesi di un filosofo: certe persone creano un doppio, sulle cui spalle si sbarazzano della loro colpa, della loro vergogna, della loro paura. E’ quello che ho fatto. Mi sono creato un doppio per sbarazzarmi delle mie nevrosi, della mia paranoia, della mia timidezza, delle mie inibizioni. Un brutto mostro. Il problema è che non l’ho abbattuto e che si veste molto elegantemente (ride)… il mostro meglio vestito di tutta la Svizzera. Ho avuto la mia prima canzone di successo nel 1969, con il singolo Space Oddity, di cui la BBC si era servita come sigla di coda per l’allunaggio di Armstrong. Erano anni che aspettavo, ero pronto per il successo da molto tempo. L’aspettavo disperatamente. E’ quello che mi ha motivato nell’infanzia e nell’adolescenza. Volevo il riconoscimento al tempo stesso pubblico e artistico.
Quale era la parte di ego in questa ricerca di riconoscimento?
Il mio ego mi diceva che avevo qualcosa d’importante da offrire al mondo. Non riuscivo a capire esattamente che cosa, ma sapevo che era un fatto d’arte. Ho trascorso la mia infanzia a dire “Sono un grande artista, merito un riconoscimento.” Il mio pallino era informare il mondo intero (ride)… E’ facile dirlo oggi, ma non ho mai avuto il minimo dubbio sulla mia riuscita. Sapevo che sarei diventato celebre, mi sono preparato a questa vita già da molto giovane. Esteriormente non ero che un tipo spaventato e timido. Ma in fondo a me stesso, la sicurezza era fenomenale. Il mio doppio moriva dalla voglia di uscire alla luce del sole. Il mio miglior amico di quel periodo, Marc Bolan, era esattamente come me. Eravamo così sicuri del nostro avvenire che dovevamo essere molto deprimenti per gli altri, dei veri rompipalle. I due più grossi ego di tutta Londra (ride)…
Come siete diventati più amici che rivali?
Il nostro primo incontro fu così comico… Debuttavamo tutti e due a avevamo firmato, senza saperlo, con lo stesso manager. Era il 1965 o 66. dal momento che avevamo bisogno di soldi, ci ha proposto di ridipingere il suo ufficio. Ci rivedo tutti e due, coperti di vernice, a discutere del nostro radioso futuro (ride)… Marc canticchiava le sue canzoni, pennello in mano, per infastidirlo, fischiettavo Rubber band. Eravamo tutti e due mod. e’ stato lui a dirmi che il modo migliore per trovarsi i vestiti era di girare per King’s Road o per Carnaby Street dopo le sette di sera. A quell’epoca, tutti gli abiti con il minimo difetto venivano buttati nella spazzatura alla chiusura.. passavamo le serate a rovistare tra i rifiuti, aveva fatto così il nostro guardaroba. Era veramente chic, così comico. Mi dispiace davvero che ci si fosse inimicati, che non ci si sia riconciliati che anni dopo, con la mediazione di Tony Visconti. Eravamo agli inizi degli anni settanta e non era più una questione di fare gli smargiassoni sul nostro futuro. Sapevamo allora che il nuovo decennio sarebbe stato il nostro. C’era quindi della vera gelosia, della diffidenza. E’ stato Marc Bolan a farcela per primo, i T-Rex divennero enormi, il più grosso fenomeno dopo i Beatles. Ma per una ragione sconosciuta, il gruppo non è mai riuscito a bucare negli Stati Uniti.
Forse perché Marc Bolan era un po’ troppo effeminato per gli americani.
Non sai a chi stai parlando (scoppia a ridere).. Il problema, è che Marc Bolan era troppo freddo sul palco. Se il pubblico non lo seguiva, si bloccava totalmente. Mentre io, io venivo motivato dal pubblico ostile. Mi faceva arrabbiare, mi spingeva ancor più alla violenza, all’oltraggio. E’ grazie ha questo che l’ho superato in America. Marc non ha mia avuto voglia di battersi. Io mi sono battuto contro questo pubblico e ho vinto. Finalmente ci siamo rivisti di nuovo nel 74. E siamo rimasti molto amici, fino alla sua morte, nel 77… Qualche giorno prima del suo incidente in auto, l’avevo raggiunto sul palco, avevamo cantato insieme Heroes. La sua morte mi ha sconvolto, perché abbiamo vissuto insieme molte cose. Una vecchia amicizia, con i suoi alti e bassi. L’amavo molto. Ho provato lo stesso sentimento di crudele rovina il giorno della morte di John (Lennon), nel 1980.
In After all dici “l’uomo è un ostacolo”, E’ in quel momento che inizi a creare dei personaggi: Ziggy, Aladdin, The Thin White Duke… Bisognava prima uccidere David Jones per non conservare che il tuo doppio?
Hai ragione a voler tornare su questa linea, perché la mia personalità – timida e impacciata – era un ostacolo per il mio doppio. Il mio vero io mi impediva di riuscire nei miei obiettivi, era diventato una palla al piede. Ero davvero squilibrato in quel periodo, un povero ragazzo svampito. E’ per quello che ho iniziato a usare molte droghe. Grazie a loro, mi dimenticavo dei miei conflitti interiori, della mia schizofrenia. Era una fuga in avanti, rifiutavo totalmente di vedere in faccia la verità, di fare elle scelte. Le droghe mi dicevano “Non inquietarti, hai il diritto di essere in conflitto in questo modo.” Preferivo ascoltare loro che la voce della ragione.
Utilizzavi i tuoi personaggi nello stesso modo in cui facevi uso di droghe, per scappare via?
All’epoca non ci pensavo. I miei personaggi – lo credevo – erano un mezzo comodo per vincere la mia timidezza e per salire sul palco. David Jones, lui, non sarebbe mai potuto salire su un palco. Ma in realtà, io ho utilizzato tutta la mia carriera di quel periodo per un solo scopo: fuggire da me stesso, dalla realtà.
Durante gli anni, le tue canzoni erano ancorate nella realtà londinese. Improvvisamente, con Ziggy, perdono il contatto con il concreto.
Ero diventato uno straniero, uno che guarda dall’alto ma non partecipa mai. I miei pezzi non parlano più di coinvolgimenti personali. A poco a poco, mi sono staccato dalla realtà. Senza dubbio perché ero troppo timido per affrontare il mondo. Fuggivo dalle mie responsabilità, era più bello vivere nella pelle dei miei personaggi… All’inizio, Ziggy non doveva esistere se non sul palcoscenico. Ma a poco a poco, mi ha sostituito nella vita privata. Non sapevo più dove iniziava e dove finiva. Ancora oggi, non ricordo bene che ho fatto in quel periodo. Tenevo talmente tanto al mio ruolo che io non esistevo più. Non era divertente essere Ziggyventiquattrore su ventiquattro… Mi ricordo di una solitudine atroce. Come se mi immaginassi totalmente escluso dalla società, avevo creato la mia, e ciò ha avuto come scopo quello di allontanarmi ancor più dalla realtà. Ero in un tal caos psicologico. E’ un miracolo che ne sia uscito indenne. Alla fine, forse non intero ma in qualche pezzetto solo (ride)… Pezzi che sono riuscito a rincollare nel corso degli anni.
Non sei mai riuscito a piantare in asso Ziggy?
A partire dal momento in cui ho messo il mio naso nella coca, è finito. Era preso da una spirale incontrollabile. Tutti questi personaggi –quello di Aladdin Sane, quello di Diamond dogs, di Station to station – li ho creati senza nemmeno rendermene conto. Sprofondavo poco a poco, senza nemmeno dibattermi. Nel 1976, all’epoca di Station to station, avevo veramente toccato il fondo. Se avessi continuato oltre, avrei finito per uccidermi. Ma per miracolo, ho avuto un istante di lucidità durante la quale mi sono reso conto che stavo giocando con la mia vita. Ero completamente distrutto, sia fisicamente che mentalmente. La droga mi aveva completamente distrutto. Dal momento che mi permetteva di essere qualcun altro, non vivevo che per lei. Ma mi ha reso pazzo, ero diventato un vegetale.
Quello che è sorprendente, è constatare la coerenza degli album registrati in questo periodo: Aladdin sane, Diamond dogs, Young Americans, Station to station…
E’ effettivamente spaventoso. Ma questi dischi sono una testimonianza abbastanza eloquente di una discesa agli inferi. Uno psichiatra passerebbe un momento brutto a sezionare ciascuno di questi album. Gli sarebbe facile dimostrare fino a quale punto chi ha fatto quei dischi soffriva di schizofrenia. A modo mio, riflettevo il terribile senso di alienazione di cui hanno abbastanza sofferto le persone negli anni settanta. Molti fra di noi hanno avuto l’impressione di avere raggiunto il punto di non ritorno, al di là del quale non si doma più la tecnologia. Avevamo paura della guerra, di tutte quelle nuvole nere che passavano sulle nostre teste. La decomposizione del mio stato mentale rifletteva questo disagio. Era molto immaturo. Mi annoiavo velocemente, mi stancavo della gente. E’ per questo che ogni album faceva esattamente il contrario di quello precedente. Ero ogni volta deluso da quello che avevo appena raggiunto, bisognava che passassi ad altro. Provavo difficoltà a restare concentrato per molto tempo. E’ un tratto che mi è restato. Preferisco toccare tutto velocemente che essere lo specialista di un soggetto preciso. La conoscenza superficiale di un soggetto non mi disturba del tutto, mi ha permesso di condurre un’esistenza molto interessante. Oggi, per la prima volta, non ho più voglia di rifiutare sistematicamente quello che ho fatto nel passato. Ci vedo una miniera sulla quale posso picconare. Mentre negli anni me lo sono totalmente vietato. Ogni disco tentava di fare tabula rasa del passato, sia in bene che in male. Dal momento in cui non ci sono più state droghe né alcol nella mia vita, non ho più avuto bisogno di reagire in modo così violento, così estremo. Il passato non mi fa più paura, ne sono venuto fuori. Spero solamente di non essere mai totalmente sano di mente (ride)…
Tu dici di avere toccato il fondo all’epoca di Station to station. Eppure, il tuo album più disturbato resta Diamond dogs.
Il più oscuro, è innegabile. Il seguito su Low e Heroes, la follia resta, ma diventa uno spazio quasi gradevole in cui vivere.
In questa discesa agli inferi, Young Americans segna una pausa. Il piccolo inglese bianco scopre i club neri. Raramente un disco è stato così spontaneo.
Come ho potuto fare un album così spontaneo, essere tanto esuberante su un soggetto come quello del soul americano? Questo album resta un mistero. “Hey, il soul, faccio un album soul!” (ride)… Del soul un po’ disturbato.
Descrivi Station to station come il tuo album più torturato. Sembra essere il tuo primo disco “adulto” e instaura per la prima volta un tono al quale resterai fedele fino a Lodger o a Scary Monsters.
Sono d’accordo sul fatto di dire che la mia carriera è diventata più coerente a partire da questo album. Prima la mia discografia era molto disparata. Sono certo che Station to station segna una svolta, una rottura. Ci ho riflettuto molto, ma sono incapace di spiegare perché il suono cambia allora struttura. Avevo già tentato con Diamond dogs di creare questa atmosfera strana, soffocante. E’ in questo periodo che ho capito che mi stavo suicidando con la droga, una constatazione molto adulta (sorride)… Il mio primo gesto di maturità. L’album ne risentì… Che faccia tosta cantare “It’s not the side-effect of the cocaine” quando sapevo per certo che il disco era interamente il risultato degli effetti secondari della cocaina. Ho molto sofferto durante la registrazione di questo album. Non potevo andare più avanti.
Che hai cercato di provare con la famosa trilogia Low-Heroes-Lodger? Dopo essere stato riconosciuto rockstar, si ha l’impressione che tu cerchi una credibilità da artista, da innovatore.
Quando ho iniziato a lavorare con Iggy Pop su The Idiot, avevo visto la direzione che dovevo prendere. In un certo qual modo, mi sono servito del suo disco come di un canovaccio per Low. Un aspetto molto europeo, che volevo fare entrare in collisione con una musica fondamentalmente americana. Non sono arrivato ad esporlo in modo chiaro, ma avevo un progetto in testa, un’idea confusa. Ha preso forma su Low. La ritmica è americana, ma le melodie e il loro romanticismo sono europee. Questo era presente ancora allo stato selvaggio in Young americans, ma là sono riuscito ad addomesticarlo, a renderlo sofisticato. I Kraftwerk – in particolar modo Florian – mi avevano convinto che bisognava restare fedeli all’Europa, che aveva molto da offrire. Prima di iniziare a registrare la trilogia, ne avevo abbastanza dell’America, soffrivo di nostalgia della mia terra. A Los Angeles, vivevo attorniato da una fauna insopportabile: trafficanti di droga, satanismi.. Bisognava che io rientrassi, per curarmi. Me ne dovevo andare per occuparmi finalmente di mio figlio Joe. Con Iggy, prendevamo un po’ troppe droghe. Lui carburava a eroina, io a coca. Lui si distruggeva il corpo, io il cervello. Non potevo più restare in America. Ci voleva una città nuova, dove non mi si considerava più una rockstar. A Berlino, per la prima volta, sono entrato in studio senza essere fatto. Hai ragione, volevo essere riconosciuto come artista. Essere una rockstar non era sufficiente. Non avevo mai voluto esserlo. Ho sempre avuto la sensazione di non appartenere al mondo della musica pop o rock. Non ho nulla in comune con questi bravi ragazzi che venerano il rock’n’roll dalla mattina alla sera. Trovo sia noioso. Ciò che mi piaceva del rock, erano i modi diversi di utilizzarlo. Per me era più un mezzo che una passione. Il circo che gli stava intorno era insopportabile. Ne avevo abbastanza di essere al centro di tanto commercio. Dovevo staccarmi dalla droga, dal business, dai falsi amici. Ritrovarmi da solo, in uno luogo sconosciuto, ripartire da zero e scoprire un minimo di realismo. Bisognava che cambiassi aria,che fermassi la droga. Sono partito per Berlino, dove ho anche smesso di bere. Ma credo che il lavoro che ho fatto con Eno sia stato un po’ troppo sopravalutato. Questa tecnica di collage, non l’avevamo inventata noi. Viene da Duchamp, gruppi come i Gong o i Soft Machinel’avevano già utilizzata prima di noi. Un suono tipico degli studenti d’arte: se non sei abbastanza bravo a dipingere, ti resta sempre il rock (ride)…In Low, in Heroes, in Lodger, in Scary Monsters ho l’impressione di avere continuato il lavoro intrapreso con Station to station. Infatti, “trilogia” è una gran parola per descrivere una collaborazione con Eno. Personalmente vedo Low e Heroes da una parte e Lodger da un’altra. Anche se quest’ultimo non è molto ben riuscito, ha aperto la porta alla world-music, ai Talking Heads. Ha aperto nuove prospettive che Eno ha in seguito utilizzato in My Life in the bush of ghosts e in Remain in light, uno dei dischi più maturi della storia del rock. Ha avuto il merito di fargli scoprire il funk (ride)… Dopo questa, c’è un’altra rottura nella mia carriera. A parte forse il lato B di Let’s dance, non ho pubbblicato nulla di particolarmente interessante dopo Scary Monsters. Tonight, nell’ 86, è la cosa più brutta che ho fatto nella mia carriera. Non ha la più piccola inventività, il più piccolo calore. Avevo abbandonato completamente i miei dischi in quel periodo. Non mi interessavano più, ho lasciato che gli altri li facessero al posto mio. Per Never let me down, ho scritto dei bei pezzi. Ma li ho completamente abbandonati al momento della registrazione, ho lasciato passare degli arrangiamenti davvero troppo leggeri. Ho troppo delegato, non mi sono coinvolto abbastanza nei miei album. Non avrei dovuto registrare nulla tra Scary Monsters e Black tie/White noise. Durante tutti quegli anni, ero totalmente indifferente a quello che mi succedeva. C’erano delle cose più importanti nella mia vita della musica, l’ho trascurata. E’ difficile ammetterlo, ma bisogna essere realisti: negli ultimi dieci anni, non sono stato all’altezza.
Let’s dance è il tuo più grosso successo commerciale ad oggi. Quale effetto ti ha fatto ottenere un riconoscimento pubblico con uno dei tuoi dischi più brutti?
Terribile (ride)… Fino a quel disco, non avevo mai guadagnato una lira. Ero totalmente irresponsabile, non mi preoccupavo nemmeno di sapere quanto guadagnavo e chi, alla fine, si metteva i soldi in tasca. Avevo intorno dei parassiti che si servivano allegramente, non mi rimaneva nulla alla fine. Nel 1983, ho deciso che ne avevo abbastanza di essere la gallina dalle uova d’oro e di mantenere tante persone. A mia volta, ne ho voluto godere…
Di tutti gli artisti della tua generazione, tu sei probabilmente il solo a non avere usato la sua fama per dare lezioni di politica a favore dei giovani. Non ti abbiamo mai sentito predicare per una causa o per l’altra.
Mi piacerebbe esserne stato capace, ma sarei stato ridicolo. Non capisco nulla di politica. Tutte le canzoni impegnate che ho cercato di scrivere erano così inopportune, così sciocchine… Non sono fatto per il realismo, per gli slogan. Preferisco lasciare questo compito a Sting. Quel genere di musica non mi interessa tanto. Lascio a lui le crociate, lui e Peter Gabriel salvano il mondo… Sarei per loro completamente inutile. Mi basta spedire qualche assegno, servo di più così. E inoltre, non lo faccio per dare sollievo alla mia coscienza. Non sono di natura altruista. Ho poca simpatia per l’umanità. Si è giustamente tentato di cambiarla, io penso che sia fatica sprecata. Sono troppo egoista per coinvolgermi.
Non hai paura di rinchiuderti, in Svizzera, in una torre d’avorio?
Non sono mai stato in contatto con la realtà. Durante più di vent’anni, i miei unici interlocutori sono stati musicisti e trafficanti di droga, il mio ambiente le discoteche alla moda. Non ho incontrato che degli svaniti, i cervelli più scassati del pianeta. Non mi mancano affatto. Quell’ambiente riduce considerevolmente il tuo campo visivo. Si diventa quasi ciechi. Questa fuga in avanti, da un eccesso all’altro, alla fine è terribilmente noioso. In Svizzera, non mi annoio un secondo. Ci sto felice, innamorato e, soprattutto, controllo la mia vita. Ci sono voluti tutti questi anni per accorgermi che amavo più di ogni cosa al mondo passare dei momenti gradevoli con i miei amici e la mia famiglia. Conduco un avita terribilmente noiosa per i giornali scandalistici: passeggiate a piedi, sci, lettura, pittura, video. Se ci fosse un concorso “Trascorrete un giorno con David Bowie”, il vincitore rimarrebbe deluso (ride)… La “gente vera”, inizio solo ora ad incontrarla. Conosco finalmente persone per le quali l’ultima innovazione in materia di chitarra Gender non è la principale preoccupazione.
Per molti giovani gruppi, tu sei il riferimento ultimo. Sei a tuo agio in questo ruolo di padrino?
E’ curioso, sembra che io sia tornato una volta di più di moda. Quest’anno, gli Suede. Mi sono abituato a fare da padrino, è vent’anni che va avanti. Un anno io sono “le gran fromage” e l’anno dopo sono da buttare…Suede, sono piuttosto lusingato. Amo il loro modo di scrivere, sento che si evolveranno fra un paio di album, si sbarazzeranno finalmente delle influenze anni settanta per volare con le proprie ali. Quei ragazzi sanno scrivere. E’ come il buon vecchio Morrissey. Lo trovo meraviglioso. Il suo senso dell’humour sorprendente, lo trovo esilarante. E’ uno dei miei parolieri favoriti della storia della musica pop. Dovevo riprendere un suo pezzo, in omaggio al suo talento. Quando gli ho fatto ascoltare la mia versione di I know it’s gonna happen someday, ha esclamato “Grandioso!” (ride)… Mi ha confessato di essersi ispirato a Rock’n’roll suicide per scriverla. Con Mick Ronson, che gli produceva l’album, hanno voluto farmi una strizzatine d’occhio. Dal momento che mi imitava, mi sono deciso a imitarlo per imitarmi a mia volta. Spingendo a fondo sul lato melodrammatico, come se avessi registrato questa cover nel 1973. sono felice che siano entrati in studio insieme, che Mick Ronson benefici finalmente di un po’ di riconoscenza. Lo si ha molto sottovalutato, sia come musicista che come produttore.
Tutti questi gruppi hanno l’età di tuo figlio. Come fai a rimanere in contatto con questa musica?
Se non fossi stato un fan della musica, l’avrei già abbandonata da molto tempo. Ma ho sempre avuto bisogno della musica, questa fedele compagna. Voglio sapere tutto, sono come un ragazzino. Per esempio, mi sono davvero depresso il giorno in cui ho appreso della separazione dei Pixies. Che brutta storia.. Me li vedevo diventare enormi. Il giorno in cui ho sentito Nevermind dei Nirvana per la prima volta, mi sono davvero arrabbiato. Questa dinamica delle canzoni, l’hanno interamente presa dai Pixies. Avrei veramente voluto sia loro che i Sonic Youth fossero in alto sui cartelloni. Ma i primi si sono divisi e i secondi accettano troppo i compromessi (ride divertito). Per ritornare alla tua domanda, non vedo proprio perché dovrei ascoltare solo quelli della mia età. Byron e Shelley avevano vent’anni quando componevano le loro poesie, questo non mi impedisce di leggerli a quarantacinque anni. Questo non mi impedisce di ascoltare Neil Young, qualcuno della mia età che è rimasto fedele a se stesso. Non lascio che sia il mio corpo a dettare i miei gusti. Amo certa musica, in modo sincero e spontaneo. Non l’ascolto per fare il giovane. Tutti questi gruppi, non è che poi interessino molto a Joe, mio figlio, preferisce il rap. Meglio questo, perché in un certo periodo mi aveva preoccupato: ascoltava solo gli Abba (ride)… poi sono tornati di moda. Forse Joe era avanti rispetto ai suoi tempi. Come suo padre.
Se avete informazioni e materiale da inviare, scrivete a velvetgoldmine@velvetgoldmine.it