Day-In Day Out Tutti brani sono scritti da David Bowie ad eccezione di quelli indicati | |
Data di uscita: 27 aprile 1987 | |
MUSICISTI | CREDITS
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La recensione di Pierluigi Buda – Heathen958 Con Never Let Me Down, per la seconda volta dopo Tonight, David Bowie si ritrova a non svolgere più un ruolo trainante nella scena rock preferendo di lasciarsi guidare da più formule consolidate e senza darsi alcun ruolo. Il disco risulta a tratti incerto e spesso ipertrofico: le superflue sovrapposizioni di parti strumentali non portano i risultati sperati. Bowie usciva da esperienze positive: le colonne sonore, il successo incontrastato al Live Aid, la produzione per Blah-Blah-Blah di Iggy Pop. Ma quando si è trattato di rimettersi in gioco, non ha saputo/voluto orientarsi a dovere, producendo così un disco (in cui suona, produce, scrive e canta molto – e a tratti molto bene) pieno di un’energia (grazie all’inedita accoppiata Alomar/Kizilcay) che però vaga senza meta fra contraddizioni irrisolte (Beat of your Drum – Bang Bang) e potenziali non sfruttati a dovere (Zeroes). C’è più sforzo artistico/compositivo rispetto a Let’s Dance e Tonight, come dimostrano Day-in Day-out, Time Will Crawl, Never Let me Down, ma nulla sembra concretizzarsi pienamente. Bowie, felice e sorridente, lodava il disco (salvo poi nelle ristampe eliminare addirittura un brano, Too Dizzy), ma in effetti doveva sostenere il tour ad esso collegato. Citava il futurismo italiano, ma la copertina richiama il sipario di Picasso per il balletto Parade di Satie del 1917 e lo show univa con modi post-moderni Pina Bausch, Broadway e il rock – un Baz Luhrmann ante litteram, quindi non così disprezzabile come si usa fare. Ma la fragilità del disco si palesa più che mai sotto la sottile patina lucente ed energica e Zeroes o ’87 and Cry sono lì a dimostrarlo. Se Glass Spider assolve con dignità alla sua funzione teatrale (ancora una volta il futuro raccontato da un’ottica surrealista), altrove l’ispirazione latita (New York’s in Love o Shining Star, con il risibile intervento di Mickey Rourke). Ma siamo alla fine degli anni ottanta e forse pochi altri dischi hanno saputo ricalcare l’aspetto di una ridondanza che si sgretola su se stessa, tentando di sopravvivere a tutti i costi: in questo è l’opera tipica di un’epoca di per sé poco suggestiva. Se la vera arte andava cercata altrove, questa volta Bowie non lo capì per tempo. I testi a volte propongono interessanti aspetti di critica sociale (Day-in Day-Out), che verranno meglio sviluppati nell’operazione Tin Machine, o momenti più ricercati come Beat of Your Drum o Time Will Crawl, ma non sviluppano pienamente l’intenzione iniziale. Alla fine si resta storditi da un disco in cui Bowie non parla di sé, osserva l’esterno ma quasi senza la vera curiosità da artista, suona una buona musica ma senza magia. È un disco di passaggio che termina la sua corsa esattamente là dove era iniziata: in una specie di luccicante inconsistenza. Pur con una sua unicità: poiché mancano completamente i segnali di ciò che avverrà dopo, è il primo disco di Bowie che chiude un’epoca, piuttosto che aprirne una nuova. |