Hanif Kureishi intervista David Bowie, Panta n.11, 1993

036pantaDavid Bowie e io abbiamo frequentato la stessa scuola, nella periferia meridionale di Londra. Anonimo David Jones , se ne stava lì, in una fotografia di classe appesa accanto alla presidenza. Il padre di Peter Frampton fu il nostro professore d’arte. Nel mio romanzo Il Budda delle Periferie, Charlie Hero è folgorato da David Bowie e si tinge i capelli. Bowie era stato un Mod e, per breve tempo, un hippy. Poi condusse molti di noi tra gli spazi interstellari. Poco tempo fa mi sono procurato tutta la sua opere su cd; la varietà e la qualità sono straordinarie. Ci siamo incontrati in uno studio di registrazione e, pochi giorni dopo, siamo andati a cena. Bowie emana glamour. I suoi modi sono impeccabili; è pieno di immaginazione, e si esprime con una precisione rara.

038hanif-kureishi_1992A che cosa dovevano prepararti gli studi che hai fatto? 
Disegno, grafica, illustrazione o qualcosa del genere. L’arte come carriera. Penso che alcuni dei miei compagni si siano dedicati all’ arte con scarsi risultati. Ma la maggior parte si impiegò in piccole agenzie pubblicitarie. Ed è stato così anche per me. Mi pare che Owen mi abbia fatto avere due o tre colloqui dopo la scuola. Uno in un’ agenzia pubblicitaria a Bond Street, la Nevin D. Hurst, una società dello Yorkshire che stava tentando il grande salto nel mare di Londra. Erano dei pubblicitari. Facevano la pubblicità a un impermeabile e a un biscotto dietetico chiamato Aids.
Sì, mi ricordo… 
E’ stato ritirato dal commercio di recente. Lo so, lo so. Quando gli diedero il nome pensavo “Chissà per quanto andranno avanti con questo fottuto biscotto dietetico”.
Lo pensavo anch’ io.
Mi ricordo che facevo dei collage… Ero uno junior visualizer. Era una qualifica importante. Ma in realtà facevo solo dei collage. E non ho mai avuto l’ occasione di dimostrare quanto valevo veramente, perché l’ agenzia pullulava di talenti e ce n’ era uno in particolare di nome Ian che era un fanatico di Hooker. In un negozio di Soho trovai l’ album di John Lee Hooker e uno di Bob Dylan. Acquistai due copie di entrambi, e, dato che Ian mi aveva fatto scoprire John, gli regalai l’ album di Dylan. Scoprii questi due artisti in un giorno solo. Fu qualcosa di magico. Quei due musicisti…
Li avevi già ascoltati prima?
No, era la prima volta. Avevo più o meno sedici anni, eravamo nel ’57… No, no, nel ’63.
E quell’ album di Dylan?
Era il suo primo album, quello dove c’ era la sua fotografia con il berretto in testa. Era un ritratto bellissimo.
Sì, e poi c’era quella ragazza con… 
No, quello era Free Wheelin’ ed è uscito più tardi. Io sto parlando di quello intitolato Bob Dylan, quello che lo ha fatto conoscere. (David Bowie ammira le scarpe di Kureishi paragonandole a una coppia di rimorchiatori)
Così ascoltavi John Lee Hooker e Bob Dylan.
Si e la cosa fantastica è che li ho scoperti tutti e due lo stesso giorno. Una cosa da pazzi. Prendi Dylan. Cera qualcosa di così intelligente in quella sua voce roca e sgranata. Ed era difficile non esserne catturati. Ho continuato a guardare le foto e ad ascoltare quella voce e non riuscivo a trovare alcuna corrispondenza tra l’ una e l’ altra. Non potevo capire come quella voce potesse provenire da quel….
Ragazzino?
Sì, da quel ragazzino dell’ aria innocente. In quel periodo vivevo ancora con i miei. Io vivevo a Bromley, in Castor Grove. Era dalle parti di Bromley Mall? Proprio così, Bromley Mall, appena fuori…
Torniamo a parlare di musica...
Sai, penso alla particolarità del rock inglese… Molti di quei compositori erano pittori che avevano scelto di esprimersi attraverso un’ altra forma artistica, la musica, e penso che questo sia accaduto perché, costretti a lavorare nella pubblicità o nel design, cosa che veniva considerata una svalutazione della propria creatività, cercavano di realizzarsi attraverso altre esperienze.
Infatti le scuole d’arte sono state molto importanti per il rock inglese. 
Proprio così. Penso che ogni gruppo che si è imposto sulla scena inglese per esempio i Kinks, Ray Davies, John Lennon, Keith e i Rolling Stones, Pete Townshend degli Who, insomma tutti i gruppi più importanti, abbia avuto almeno un componente che proveniva da quel tipo di scuola. E negli Stati Uniti questo è cominciato ad accadere solo con l’ avvento di un gruppo come i Talking Heads. Penso però che David (Byrne) abbia studiato televisione e che l’idea di adottare il nome Talking Heads venga proprio di lì.
E oltre a Dylan e a Hooker che cosa ascoltavi in quel periodo? Musica inglese?
No, non in quel momento particolare. Nel 1966 ero molto interessato ai gruppi londinesi di rhythm & blues, Downliners Sect, Pretty Thing e altri gruppi.
E John Mayall? 
Si. Andavo ai suoi concerti con i Blues Project. E Graham…
Graham Auger.
No, non Graham Auger. Graham Bond, suonava con Jack Bruce. Con Dick Heckstall Smith al sax e Spike Hinckley al basso.
Era il periodo in cui lavoravi nella pubblicità?
E suonavo soltanto la sera. Sapevo che avrei lasciato la pubblicità. Ho resistito cinque mesi in quell’ agenzia. Mi sono reso conto che se avessi voluto un futuro… Cioè, l’ unica evasione degli altri artisti in quel posto era di comprare dischi, andare nei club e sentire la musica. Tutti odiavano il proprio lavoro, e trovarsi a dire frasi come “devo preparare uno spot per questo fottuto impermeabile…”
Com’ era la Londra di quel periodo? Sentivi i cambiamenti che stavano avvenendo?
Sì, di notte. La notte era qualcosa di fantastico; c’ erano tantissimi gruppi da vedere; per esempio, a Soho ogni locale ospitava un concerto.
Ma quali locali frequentavi?
Fammi pensare… il primo club importante che ho frequentato era il Kilt, perché era uno dei pochi club che ospitava James Brown. Era pieno di francesi, sembrava un club francese a Londra. Come sai i francesi hanno scoperto il soul molto prima di noi, poi è diventato di moda. E un amico di nome Jeff McCormack in quel momento impersonava il tipico soul boy. Fu quella la prima ondata dei Mods perché, se ricordo bene, ce ne furono due. Una nei primi anni sessanta, ci si vestiva con pantaloni sopra le caviglie e calze fluorescenti.”
Mi ricordo…
C’era la moda dei vestiti italiani. E’ in quel momento che sono diventato un Mod. Chiesi a mio padre di comprarmi un vestito da Burton a rate. Una giacca molto stretta, pantaloni molto aderenti e attillati, un paio di Denson High Pointers. E il fazzoletto che spuntava dal taschino era tenuto in piega da un cartoncino cucito all’ interno.
Come si è imposto a Londra il look dei Mod? Era molto in anticipo…
Originariamente si chiamavano Modernists. Li chiamavano così e la moda italiana aveva un grande fascino su di loro. Ricordo che quelli della prima ondata si truccavano molto più dei loro epigoni, che più che altro si limitavano a indossare giubbotti e andare in moto. Ma in quel periodo io avevo già lasciato quel gruppo. Facevo il Mod quando andavo ancora a scuola, nel ’62. Chiesi a mia madre di stringere la giacca della mia uniforme. Portavo cravatte molto strette, su modello di quelle italiane e il bavero ripiegato come quello dei tight. Ti ricordi come si portavano i capelli, con quel taglio molto corto e il ciuffo? E poi l’ombretto, si usavano ombretto e kajal. Non mi pare che sia tornato di moda.
E il fatto di truccarti deriva da questa esperienza?
Può darsi, mi trucco ancora. La prima volta lo feci per sembrare un vero Mod.
E come la prese tua madre?
Be’, lei…Non lo so, non era d’ accordo, comunque non ha mai cercato di impedirmelo.
Era difficile essere un Mod a Londra in quegli anni?
Sì… però io non sono mai stato picchiato… Un mio caro amico invece sì, e duramente. A me non è mai accaduto. Sono stato fortunato, non so perché. Avevo un fascino particolare… sapevo di non dover reagire alle provocazioni, a frasi come ‘finocchio di merda’, e altre cose del genere. Io lasciavo perdere, me ne fregavo, la sola idea di litigare mi infastidiva.
Non ti dispiaceva cbe quando ti truccavi le ragazze dicessero “questo è…”
No, assolutamente, mai. Era proprio quello il fatto: nei club che frequentavo era una cosa del tutto normale. Loro, del resto, erano altrettanto eccentriche, indossavano delle specie di zoccoli da infermiera, i clogs, vestiti stile country lunghi fino ai polpacci, e giacche di taglio molto squadrato. Avevano capelli cortissimi, mi ricordavano le puritane o qualcosa del genere; le ragazze Mod erano molto bizzarre.
Ma all’epoca della scuola avevi già un progetto per diventare… 
L’ avevo già a otto anni, scolpito nella mente… Quando avevo otto anni mio padre portò a casa dei dischi che gli avevano dato nel posto dove lavorava. Lui teneva le pubbliche relazioni per gli asili Barnard, lavorò per quell’istituto per gran parte della sua vita, sempre con differenti mansioni, quello che gli importava era di aiutare i bambini in quel periodo. Dei soldati alleati inviarono uno stock di 45 giri americani; lui ne portò a casa una dozzina perché io li ascoltassi, e mi disse: “Ne prendo qualcuno che mi interessa. Gli altri sono per te.” Mi rimase solo un disco di Little Richard. Era fantastico. Era She’s got it e faceva “Sweet little girl that lives down the street / I’m crazy but I say she’s sweet…She’s got it”. Ma avevo solamente un giradischi a 78 giri a manovella.
Si mi ricordo, di quelli a cui si doveva cambiare la puntina… 
Sarebbero passati mesi prima che io potessi ascoltarlo, non mi riuscì mai di sentirlo alla giusta velocità. Cercavo di far ruotare il piano per portarlo alla velocità di un 45 giri. Dopo molti tentativi la puntina rovinò irrimediabilmente il disco. Poi, il pezzo uscì anche in Inghilterra. Ti ricordi, no? A questo punto nacque la mia passione per la musica. Ne ero catturato; quando ascoltavo quel disco pensavo: “Cristo, voglio…” Quello che volevo fare inizialmente era suonare il sassofono in quel gruppo. Questa era la mia ambizione a otto o nove anni: suonare nella band di Little Richard. E fu così che comprai il mio primo sassofono, un Selmer, era di bachelite, identico a quello di Johnny Dandk Worth, di plastica color crema con le chiavi dorate. Era un modello molto economico e io lo pagai a rate. Per pagarlo trovai un lavoro come garzone in una macelleria.
E hai imparato da solo? 
Sì, all’inizio, poi ho scoperto che Ronny Ross, il musicista jazz, viveva dalle mie parti. Un giorno gli ho telefonato e gli ho detto: “Mi daresti delle lezioni?” E lui mi rispose: “Di solito non lo faccio, ma vieni pure. Ti va bene sabato pomeriggio?” Così sono andato e ho cominciato. Ho fatto circa dieci lezioni con lui e poi ho pensato: “Adesso basta, dovrei potermela cavare da solo. Voglio suonare.” E ho chiuso con le lezioni. Gli dissi: “Entrerò in un gruppo e diventerò una rock star” e lui fece: “Perfetto ragazzo, sei pronto per il rock ‘n’ roll.” Ma l’ironia ha voluto che molti anni più tardi gli chiedessi di partecipare alla registrazione di Lou Reed Walk on the WiId Side dove lui suonava il sax baritono. Avevo i capelli rossi ed ero senza sopracciglia. Alla fine della registrazione lo raggiunsi e mi disse: “Grazie davvero” e io feci: “Grazie a te. E’ il minimo che potessi fare, mi ha fatto molto piacere” e lui mi rispose: “Non capisco” e io: “Tu mi hai insegnato a suonare il sassofono” e lui: “Io?”
Non se lo ricordava?
No, no, assolutamente. Ripeté: “Io?” Poi aggiunse: “Quando?” E io: “Sono venuto da te quando avevo dieci anni.” “Cristo” disse. “Eri quello che diceva di voler diventare una rock star.” E’ stato bellissimo, veramente bellissimo.
Così non glielo hai detto fino alla fine?
Non gliel’ ho detto fino all’ultimo momento. Era così eccitante la sua presenza, e il fatto di suonare questa musica incredibile.
Ci sono state delle popstar inglesi a cui ti sei ispirato?
Syd Barrett dei Pink Floyd. Penso fosse diverso dagli altri, unico.
Dove li ha visti la prima volta? 
Li ho visti al Marquee. Credo di averli ascoltati al Marquee o forse alla St. Martin School of Art. Non avevano ancora scelto il professionismo. Frequentavo ancora la Scuola d’ Arte. Credo che Syd sia stato il primo rocker a truccarsi. Andava in scena con le unghie dipinte di nero; mascara e ombretto, e appariva circondato da un’ aura di mistero. Non sapevo che cosa fosse. Forse era la sua androginia che mi affascinava. Poi si è scoperto che aveva turbe mentali. In lui c’ era qualcosa di ultraterreno, avevo la sensazione che fosse un essere asessuato. Era come sospeso a venti centimetri da terra. Avrei voluto anch’ io essere così, non sapevo cosa fosse di preciso quella condizione. Sapevo che era molto eccitante e pensavo: anch’ io voglio essere così. Non voglio semplicemente essere sollevato da terra, voglio essere proprio là, e là vuol dire essere sospeso tra due mondi, una cosa davvero incredibile.
Così durante la tua adolescenza, quando andavi a scuola avevi già un progetto preciso. Pensavi: voglio fare qualcosa di diverso, non voglio fermarmi qui. E non ti è mai passato per la testa di andare a lavorare in una banca o di diventare un avvocato?
No, mai, mai. Io sento di assomigliare molto a Charlie, un personaggio del tuo Budda delle periferie. Non è che io mi sia identificato totalmente in lui, tuttavia mi riconosco in alcuni aspetti della sua personalità. Charlie possiede la stessa determinazione che io avevo alla sua età. Ero convinto di diventare l’ Elvis Presley inglese. Già a otto, nove anni pensavo: “Sarò la più grande rock star dell’ Inghilterra”. Era il mio chiodo fisso. “Posso farcela, sono sicuro,” dicevo.
Ma c’ era qualcosa nei tuoi genitori, nella loro visione del mondo che ti faceva pensare che ce l’ avresti fatta?
Nelle mie scelte i miei genitori non sono mai stati determinanti, e ripensando a quel periodo, una cosa che faccio spesso senza amarezza e risentimento, ricordo di non aver mai avuto un vero dialogo con mio padre. Aveva un ottimo carattere e gli ho voluto davvero bene, ma non avevamo nessun argomento di conversazione. Era un rapporto, per così dire, molto inglese. Di emozioni non si parlava. A casa, tutti provavamo una sorta di imbarazzo reciproco e ognuno stava sulle sue. “Basta! Non essere sciocco! A che serve parlare di questo?” così ci si diceva.
Quale é stata la prima persona con la quale ti sei confidato nella tua adolescenza?
George Underwood, Adesso fa l’ illustratore. E’ stato lui a tirarmi quel pugno in un occhio!
Mi pare di conoscere uno che si chiama George Underwood. Quello a cui mi rjferisco io vive a Flume.
Flume? Lì vive Jeffrey McCormack, un altro mio amico. Scrive testi per la pubblicità e jingles. Sì, mi sembra proprio che viva a Flume. E’ ancora il mio migliore amico. George e Jeff sono i miei migliori amici. E’ pazzesco che ci si frequenti da quando avevo otto anni, Adesso ne ho quarantasei. Tra di noi c’è un feeling incredibile.
Si è davvero strano. Da piccoli non si ha il senso del futuro. Non si pensa mai nemmeno al giorno dopo, figurarsi se si pensa a qualcosa che potrebbe accadere dieci anni più tardi.
Già.
Il fatto che tu avessi fin da allora un progetto ben preciso mi interessa molto. Fin dalle prime interviste che hai rilasciato hai insistito sulla tua determinazione.
Vero.
E su quanto non ti piacciono le persone che non si impegnano.
Proprio così.
Poi ritorni a pensare “ma avevo veramente quella determinazione quando ero giovane?” Che cosa ti muoveva?

Di certo molta della mia ambizione ed energia viene dalla volontà di sfuggire a me stesso, e da questa sensazione di inadeguatezza e di vulnerabilità, dal fatto di non sentirsi amato. Un senso di rifiuto, pura autocommiserazione. Ho rifuggito questi pensieri buttandomi anima e corpo nel mio lavoro. Interpretando personaggi diversi. Sono stato la prima rock star a trasformarsi per sfuggire a se stessa.
E’ da qui che nascono gli alieni?
Certo, visto che non mi sono mai interessato di fantascienza. Mi sentivo frustrato quando nelle loro lettere i ragazzi mi parlavano di fantascienza e pensavo “chissà che cosa ci trovano di tanto affascinante”. Creando il personaggio alieno ho cercato di avvicinarmi a qualcosa che non intendevo come fantascienza. Comunque alcuni aspetti della cultura giapponese sono stati per me motivo di riflessione. Mi chiedevo quali fossero gli elementi alieni in quel mondo che affascinava così tanto. Pensavo al kabuki, all’ influenza giapponese nella moda e nel design.
Quindi ti sentivi alieno più nella vita privata che in quella sociale? 
A casa mi sentivo davvero un alieno. Non sono mai riuscito a parlare con nessuno. Ho trascorso molto tempo nella mia camera da letto, era tutto il mio mondo. C’ erano i miei libri, i miei dischi, il mio stereo. Come ti posso dire: “un paradiso al primo piano.”
E i tuoi genitori?
Il mio mondo era al primo piano. Per uscire dovevo attraversare una terra di nessuno: il salotto e l’ atrio.
E la vita al piano di sotto com’ era?
Ricordo che i miei genitori bisticciavano spesso. Era la solita situazione famigliare. E io mi isolavo completamente, tutti quei discorsi sugli zii e sulle zie e cugini, tutti quei pettegolezzi… Io me ne fregavo anche se adesso penso che avrei dovuto ascoltarli di più perché non conosco affatto la storia della mia famiglia.
E avresti conosciuto meglio te stesso…
Probabilmente, ma il mondo era al piano di sopra e io avevo un fratello, o meglio un fratellastro che si chiamava Terry e si è suicidato nell’ 86. Le nostre esistenze si sono incrociate soltanto due o tre volte. Quando avevo dodici anni mi fece scoprire la Beat Generation americana e tanti autori che io certo non avrei mai letto a scuola. Amava il jazz e mi ha trasmesso quella sua passione. Comunque, ho cominciato a capire il jazz davvero solo a quindici o sedici anni. Prima era solo una moda e un fatto di snobismo, perché se la gente mi domandava che cosa ascoltavo sapevo che dovevo dire: “mi piace il jazz”. Non è che ne andassi pazzo, mi piaceva sì, avevo dischi di Eric Dolphy e John Coltrane, autori piuttosto difficili. Il primo jazzista che mi colpì veramente fu Charlie Mingus; poi Roland Kirk. La loro musica era talmente originale che la sentii subito mia. Coltrane era un virtuoso. Aveva una tecnica superlativa e io capivo che i suoi pezzi erano giochi intellettuali. Invece Mingus e Kirk si esprimevano con fiammate di espressioni, di feeling e di emozioni incontrollabili e spontanee e dietro alla loro musica c’ era qualcosa di emozionale, credo. Proprio il contrario di Coltrane. Adesso le cose sono diverse, ma allora era difficile adattarsi al suo intellettualismo. Era così cervellotico; era veramente difficile.
Ti interessavi ai vestiti anche quando eri un teen-ager? 
Si, ho cominciato molto presto. Come ho detto…
A che età? Quattordici?
No, prima. Probabilmente attorno ai tredici anni. Come ti ho detto… è stato nel 1961 che ho cominciato a fissarmi con i vestiti. Avevo tredici anni… Era quando andavo a scuola vestito da Mod. Era diventata una delle mie idee fisse. Dico, ho mollato la scuola a quindici anni e ho cominciato ad andare a Londra in treno. Allora ho cominciato a imitare un tipo che viaggiava nel mio vagone. Dio, non mi ricordo come si chiamava. Lesley, mi pare, era una specie di top Mod del suo quartiere. Ed è stato il primo uomo che ho visto truccato. Sai, si truccava in treno. Era un gran figo, indossava giacche italiane e jeans bianchi di lino. Cristo, era davvero figo. Ragazzi, era grande. Va di moda perfino adesso, lo sai? E’ qualcosa del genere L.A. Look. Tutto il segreto sta in un blazer e in un paio di jeans bianchi. Ma lui si vestiva così già allora e sembrava strafigo. E si metteva stivali Chelsea, ma con calze fluorescenti, calze rosa o verdi, e l’ ombretto era in tinta con le calze.
E questo accadeva sul treno per andare al lavoro? 
Sì. Aveva i capelli leggermente cotonati e con la riga in mezzo. Era tutto veramente… Sai un figo. Però era truccato! Era veramente strano e affascinante. Era trasgressivo, strambo. Bisogna sempre muoversi al di fuori delle regole. Così ho adottato il suo stile per un paio d’ anni.
Quando hai smesso con la pubblicità?
Be’, più o meno allora… Poi ho cominciato a passare sistematicamente da una band all’ altra. Voglio dire, alcuni gruppi stavano insieme per una settimana, lo sai; altri magari duravano un paio di mesi. Ed erano tutte sostanzialmente bande di rhythm & blues. Fu allora che mi resi conto che il pop che preferivo era quello che si avvicinava di più al rhythm & blues piuttosto che al rock o altre cose. Presto mi stufai di interpretare testi non miei, e fu lì che cominciò tutto. Ogni progetto trovò un ordine preciso nella mia mente. Non solo cominciai a scrivere canzoni per i gruppi di cui facevo parte, ma pensai anche al modo di interpretarle sulla scena. Mi capitava di andare a teatro e di vedere cose che erano…
A Londra?
Sì.
Che genere di cose?
L’unica cosa che mi ha veramente colpito, avevo diciassette o diciotto anni, è stato Cabaret con Judy Densch. Le luci erano straordinarie.
Si intitolava proprio Cabaret?
No, penso che fosse I’m a Camera. E le luci erano davvero fantastiche. E non mi resi subito conto che l’ uso della luce era brechtiano, me ne resi conto dopo. Più tardi ritrovai questa stesa luce nei quadri degli espressionisti tedeschi. Fu così che cominciai a capire che esisteva un legame tra lo sperimentalismo e il mio essere artista. Era il periodo in cui stavo cercando di apprendere il maggior numero di cose possibili. Suoni e immagini si sono impressi in modo indelebile nella mia mente. Sapevo che mi sarebbero serviti… Per esempio Anthony Newly, che ora è considerato kitsch e di cui la gente si ricorda soltanto che faceva parte del Rat Pack, proponeva cose strane, come The Strange World of Gurney Shade: indossava un piccolo impermeabile bianco e faceva monologhi esistenziali improvvisati su come ci si comporta in autobus. Chissà se quel programma esiste ancora. L’hai mai visto? Era straordinario. Era un programma umoristico che andava in onda la sera tardi. Era strano. Protagonista era un uomo solo, senza amici e, nell’ episodio che ti dicevo, guardava i cartelloni pubblicitari sull’ autobus e iniziava a fare dei giochi di parole con gli slogan. Era davvero originale. Poi vidi Stop the World – I Want to Get 0ff e mi entusiasmai per il modo in cui letteralmente riusciva a rappresentare, come una specie di coro greco, tutto quello che gli passava per la mente. E il suo uso della mimica. Pensavo: “il corpo è un mezzo stupendo per rappresentare le cose e i sentimenti” e dicevo “che grande trovata la mimica.” Comunque per me la mimica era un territorio sconosciuto.
Ti piaceva ballare?
Non particolarmente. Non sono mai stato un ballerino. Mi sentivo troppo goffo. Sono più un animale da palcoscenico. Può sembrare strano detto da una persona che si sentiva goffa e impacciata. Preferivo essere quello che sul palcoscenico canta davanti a una platea gremita. Di sicuro, non ho mai avuto alcun problema a salire sul palcoscenico davanti a cinquantamila persone e cantare per due ore consecutive. Quando mi accade di parlare con la gente, invece, mi impapero, divento molto nervoso e ammutolisco. Mi accade anche adesso. E’ vero, mi sento più tranquillo, tuttavia non riesco a capire la sottile alchimia che è alla base di questa mia insicurezza.
Tornando all’ adolescenza, te ne eri già andato da casa in quel periodo?
Sì, me ne sono andato appena ho potuto. Sono scappato il più presto possibile.
Continuavi a frequentare i tuoi?
Di tanto in tanto. Per tornaconto. Ad esempio quando avevo delle cose da far lavare a mia madre. Le mie visite non erano mai motivate da un vero desiderio di vedere i miei genitori. Ero solo uno sfruttatore, ma poi nel ’68, quando mio padre morì, ho provato rimorso. Era proprio il momento in cui cominciavo a crescere e a rendermi conto che dovevo avvicinarmi a lui. E’ morto nel momento sbagliato. C’erano tantissime cose che avrei voluto dirgli e altrettante che avrei voluto chiedergli. Mi si sono riversati addosso i rimpianti che sopraggiungono quando muore il padre e non si è potuto maturare un rapporto con lui. Momenti bruttissimi, lasciamo perdere. E’ stato orribile. Sono stato davvero segnato da quell’ esperienza.
Ti ha segnato perché ti ha costretto a riavvicinarti a tua madre?
No, era ancora molto difficile avvicinarmi a lei. Provavo un sentimento contrastante che in alcuni momenti sfiorava la collera. Meglio dimenticare. E’ dovuto passare molto tempo prima che io mi riavvicinassi a lei. Era una donna che non lasciava trasparire i propri sentimenti, le proprie emozioni; pur volendo dimostrare affetto e attenzione, l’ unica cosa che riusciva a cavare da sé era la rabbia, perché quando i suoi sentimenti si manifestavano avevano già subito un processo di alterazione, mutandosi in eccessi di collera. Ma adesso so che non si trattava di rabbia. Quella era l’ unica forma di espressione che lei possedesse. Quando era preoccupata per me, diventava aggressiva: “Cosa diavolo pensi dl fare?” Mai che dicesse: “David voglio parlarti di questo problema.” Era solo capace di dire: “Non fare questo, non fare quello, ti rendi conto di quello che stai facendo a tuo padre e a me?” Oddio!
Parlando del tuo ultimo disco. Pensavo che avresti potuto intitolare il tuo ultimo disco The Wedding Album, perché è così ricco d’ amore. Credo che sia uno dei tuoi dischi più coinvolgenti.
Credo proprio di sì.
Mi sembra che tu finalmente abbia raggiunto un equilibrio reale tra le tue aspirazioni e il tuo vissuto.
Iman è stata l’ elemento catalizzatore di altre esperienze. Non voglio attribuirle qualità che non possiede. Non voglio certo metterla su un piedistallo. La amo molto, ed è molto importante per me. Ho scoperto un modo nuovo per guardare dentro me stesso, per riflettere sulla mia vita, e su quello che non ho mai voluto affrontare. Questa è stata un’ ottima base per il nostro rapporto. Se fossi rimasto chiuso in me stesso, nei miei mondi astratti, non sarei mai riuscito a costruire un buon rapporto con nessuno, e questo è stato uno dei principali problemi della mia vita. Il fatto di non saper sviluppare relazioni decenti con gli altri è stata una delle cose che più mi ha angustiato e questo spiega la mia forte volontà di diventare una rock star. Inconsciamente pensavo che in quella posizione sarei stato invulnerabile, gli altri non mi avrebbero mai sfiorato e io non avrei mai dovuto avvicinarmi a loro. Adesso mi chiedo se quel mio comportamento sia stato dettato dalla necessità di creare uno scudo emotivo tra me e gli altri. Volevo rifugiarmi in un luogo dove fossero banditi i rapporti con la gente perché mi sentivo impacciato. Mi era impossibile calarmi in un vero rapporto.
Però tutto il tuo lavoro è in qualche modo rivolto agli altri.
Sì, certo.
Hai trascorso la tua vita facendo musica.
Sì, lo so, lo so.
Quando diventi una rock star sei amato da tutti senza essere obbligato a ricambiare.
E’ qualcosa che entra nella tua vita privata scardinandola e consegnandoti alla droga.
Ti anestetizzi.
Dio mio, mi sono davvero buttato via negli anni settanta. Mi meraviglio di come possa esserne uscito vivo. Comunque quell’ esperienza mi ha insegnato molte cose di cui mi sto rendendo conto solo ora. Negli ultimi dieci anni credo di aver raggiunto una maturità che mi ha consentito di non avere rimpianti, di guardare alle cose in modo positivo. Guardando al passato credo che non tutto sia stato negativo. Anni fa avrei mentito a me stesso dicendo che tutto era allucinante e spaventoso, che non avrei mai dovuto comportarmi a quel modo… Non è vero, anche quelle esperienze sono servite, mi hanno offerto opportunità altrimenti impossibili.
Per esempio, i rapporti fallimentari dei nostri genitori hanno talmente condizionato il nostro modo di vedere le relazioni sentimentali che per noi è difficile immaginarle diversamente. Non riesco a capire. Ho riflettuto molto sui rapporti perché anche il matrimonio dei miei genitori ha vissuto delle crisi. Alcuni giorni fa pensavo che se io mi sposassi non dovrei comportarmi come loro. Il mio matrimonio dovrebbe essere…
Ha influito nelle tue scelte il rapporto tra i tuoi genitori?
Certo.
Ti ha magari dissuaso dallo stringere rapporti profondi. Una vita di rapporti che duravano una sola notte, un’ intera vita di questi rapporti; amici occasionali, rapporti nei quali non avevi nessun vincolo e nessun obbligo. Credevamo che fosse un atteggiamento trasgressivo bello e giusto. Però, alla fine, non era affatto giusto finire per abusare dell’ amore degli altri. La tua disponibilità a mille avventure non si basa su una grande spinta interiore ma sulla paura fottuta di ridurti come i tuoi genitori.
Hai detto: quando sei giovane non ti senti amato.
Sì, ma non era esattamente… Ti chiudi dentro te stesso per molto tempo e questo l’ho fatto anch’ io.
Accade quando sei ancora un bambino e credi che i tuoi genitori non ti amino come vorresti, e finisce che l’amore che dai ad altre persone non è assoluto, e risente di quel sentimento che, secondo te i tuoi genitori non hanno saputo darti.
È vero.
Offrire amore è questo. 
Si, è propro vero.
Prova a pensare a Picasso che è rimasto sino a novant’ anni in una stanza a dipingere.
Sì. Forse era infelice. Ma quello era il suo patto con il diavolo.
Credo di sì. Comunque, adesso ti sei reso conto che quella strada non ti portava da nessuna parte e hai rotto il patto.
Proprio così.
E hai deciso di fare un album che ti apriva agli altri. 
Non ci sono arrivato subito, è stata una maturazione graduale. Io penso che per ogni anno di vita di merda ce ne vogliano due per recuperare. Credo che per venire fuori dalla mia adolescenza, dai casini degli anni settanta, mi ci siano voluti tutti gli anni ottanta e i primi di questo decennio. Solo adesso posso dire che la mia sfera emotiva ha raggiunto un equilibrio accettabile. Mi sono trovato di fronte a un bivio. Adesso, forse, alcune persone non si rispecchieranno più in me. Comunque, sono certo di non dover più mettere a repentaglio il mio equilibrio interiore e la mia salute mentale per compiacere la gente che mi vuole imprigionato nel personaggio degli anni settanta. Non accetto più quel ricatto, non vale né la pena né il rischio.
Può essere. Ricordo che nei dischi dei Beatles c’ era già quell’ apertura verso gli altri che tu teorizzi adesso. 
E’ proprio così.
Pensi veramente che la tua felicità costituisca una barriera tra te e il pubblico? 
Può darsi.
Ma il tuo lavoro ne è stato influenzato.
Certo.
E si evolverà secondo quel pensiero?
E’ quello che spero perché non posso fare altro. Non sono capace di scrivere cose che non sento. Ti accorgi subito quando un musicista scrive facendo ricorso al mestiere. Vedi che il pezzo è manierato e che sotto non c’ è niente. Penso che in un pezzo debba esserci tutto il meglio di te stesso, le cose che senti, le sensazioni che provi. Insomma, tutto quello che vivi in quel momento e che cerchi di trasmettere a chi ti ascolta.
E questo lo trovi proprio in questo album. Ci si vede un Bowie felice. E’ un album in cui ti apri agli altri. 
Sì, lo gnomo felice viene alla ribalta.
In questo sta il fatto che tu ti sei sempre rifiutato di essere identificato con il movimento bippy. Non ti sono mai piaciute tutte quelle menate. 
No, assolutamente. Per un paio di mesi ho cercato di capire quel fenomeno ma c’ era qualcosa che non mi convinceva, non mi sentivo su quella lunghezza d’ onda.
Non ti interessava quello stile di vita. 
Mi sentivo a disagio, ipocrita. Avevo tutte le sovrastrutture degli hippy. Per cinque mesi ho portato i capelli a boccoli, ma tra me e me dicevo: “Che cazzo mi agghindo così, perché lo sto facendo? Credo nella moda, comunque tutto questo non mi convince. Mi auguro che cambi.” E quando sembrava che niente cambiasse ho deciso di cambiare io. Allora ho pensato: “Farei meglio a cambiare la società”. E’ questo desiderio di cambiamento che in qualche maniera mi ha portato a questa specie di “Teppista Cosmico” per la generazione di Arancia meccanica.
E’ per questo che ti sei ritrovato negli anni settanta… io ti identificavo più con quel decennio che con gli anni sessanta. 
Sì, certo. Sono sopravvissuto agli anni sessanta perché non ho mai scelto: mi sono fatto scegliere. Ho provato tutto, davvero tutto. In quel periodo anche le mie preferenze sessuali andavano in quella direzione. Non sapevo di preciso cosa volevo. E questa contraddittorietà ha segnato anche le mie scelte artistiche. Sono arrivato a odiare il rock, aspiravo a un’ arte che avesse un peso simbolico dove potessero confluire il teatro e altre esperienze. Non avevo ancora le idee chiare. E’ stato così fino al 71. Quando sono arrivati gli anni settanta ho capito che era il mio momento. E’ stato qualcosa di magico. Negli anni sessanta ho aspettato che i tempi fossero maturi. Poi è arrivato il momento. Ho pensato: “Adesso sono pronto. Tutto ciò è eccitante.” Avevo capito che quello era il mio momento, ma quel fottuto di Marc Bolan mi ha battuto. Ti voglio raccontare una storia: a metà degli anni sessanta avevamo lo stesso impresario. Non è che fossimo un granché, le nostre strade non si erano mai incrociate, conoscevamo l’ esistenza l’ uno dell’ altro solo attraverso i discorsi del nostro manager, che un giorno mi disse: “David, devo ridipingere il mio ufficio. Se te la sbrighi tu, ti pago tre quarti di quello che avrei dato al mio imbianchino.” Io risposi: “Be’, mi darò alla pittura.” Quando mi presentai per pitturare l’ ufficio, trovai un tipo con secchio e pennello. Era Marc Bolan. Così ci trovammo con rulli, vernici, giornali sotto i piedi, a parlare dei nostri successi futuri. Chiacchierando scoprimmo di essere Mod. Mi insegnò a scegliermi il guardaroba, cosa di cui gli sarò sempre grato. A quell’ epoca i negozianti di King’s Road e Carnaby Street, al termine della giornata, avevano l’ abitudine di scartare capi difettosi, quelli a cui magari mancavano dei bottoni o sciocchezze del genere. Se verso le sei o le sette facevi il giro dei cassonetti dell’ immondizia, recuperavi vestiti fantastici senza spendere un quattrino. Erano abiti che mi facevano impazzire. Marc sembrava un vero sopravvissuto: l’ ultimo sopravvissuto. E fu in quel periodo che mi fece scoprire le anfetamine.
Quali?
L’Amital. Dio, mi faceva ridere. Eravamo molto legati. Poi, ci siamo persi di vista per un po’, per ritrovarsi poi nel primi anni settanta. Avevamo capito che quello era il nostro momento. Si trattava solo di scoprire chi avrebbe sfondato per primo. Sotto alcuni punti dl vista fra noi esisteva una forte rivalità. Eravamo in competizione e gareggiavamo per lo stesso traguardo. Fu allora, con i T.Rex, che Marc ebbe un grande successo. La stampa volle montare una querelle fra noi, ma furono sforzi vani e la cosa ci lasciò indifferenti. Nel 1974 ci siamo ritrovati negli Stati Uniti e il nostro rapporto di amicizia è ripreso continuando fino alla sua morte. Era un rapporto abbastanza contraddittorio, ma sempre molto intimo. Marc era un uomo meraviglioso, dotato di uno straordinario humour. Era un cialtrone pieno di boria, che non vedeva l’ ora di colpirti, ma se riuscivi a penetrare quel guscio di arroganza sapeva ricambiarti con affetto infinito perché avevi capito il suo vero carattere. Se ti fermavi alla corazza ti reputava uno sciocco. Era un uomo meraviglioso. Con lui potevi realizzare qualcosa di estremamente innovativo. La musica era un mezzo d’ espressione stupendo, ma io non sono mai stato un rocker, solo un musicista. Non ho voluto limitarmi a quell’ unica forma espressiva. Senza un personaggio da interpretare mi sarei sentito terribilmente a disagio sul palcoscenico. Non avrei potuto diventare come Mick (Jagger). Lui era nato per il rock & roll, così come Marc aveva vissuto per il boogie. Io invece volevo…
C’è sempre stata una barriera fra te e il pubblico.
Sì.
Era una cosa che faceva parte di te come artista?
Penso che sia così.
Stavi creando un personaggio? 
Sul palcoscenico non sarò mai una persona espressiva. Mi è molto difficile trovare le parole per intrattenere il pubblico fra una canzone e l’ altra. Mi sento impacciato. Sono a mio agio mentre canto perché il mio ruolo è quello e lo so fare bene. Mi sento come un ragazzo cui abbiano dato da imparare una poesia per la festa della scuola. Ho imparato perfettamente la poesia che sto recitando, ma subito dopo mi blocco.
Mentre parlavi dei vestiti ti ho osservato: hai una grande facilità di parola.
Davvero?
Sei ferrato sull’ argomento. Non ricordi affatto l’ immagine di una pop star che parla a vanvera.
Sì (ride).
Hai parlato in modo molto chiaro del tuo lavoro, di quali sono state le tue scelte e del ruolo che occupavi sulle scena musicale.
Sì. Io stesso ho scoperto alcuni aspetti sconosciuti di me stesso che mi appartenevano. C’è stato un film che ha contato molto per me. Si intitolava The Queen. Non so se te lo ricordi.
No. Di chi era?
Era un “art movie” dedicato agli ultimi anni sessanta… Probabilmente alla metà di quel decennio. C’ erano delle cose incredibili che riguardavano lo stile di vita gay. Sai, allora l’ omosessualità era un vero tabù; anche se negli anni sessanta si parlava di libero amore, erano tutte cazzate.
Era un periodo macho. 
Due cose mi hanno entusiasmato: la prima è stata il libro di John Reichy intitolato City of the Nigbt. Non era soltanto il tema della sessualità trattato nel libro ad attrarmi, era il fatto che i protagonisti fossero degli emarginati. Mi interessava davvero. L’ altra cosa che mi ha colpito è stato il film The Queen. Devi vederlo. Era un documentario su un travestito presentato in numerose rassegne cinematografiche in tutto il mondo. Di lui ho pensato che fosse la più bella creatura che avessi mai visto. Mi identificai in lui, perché se avessi deciso di avere un vero rapporto con qualcuno, avrei scelto un tipo del genere. Ne ero entusiasta. Per gran parte del mio periodo bisessuale fui attratto dai travestiti.
Chi era il protagonista di The Queen?
Non me lo ricordo. Non mi ricordo nemmeno se fosse un attore francese o americano. Tuttavia non ho mai dimenticato quel film. Uscì la stessa settimana di Heristratus di Lindsay Anderson. Me lo ricordo perché in quella sala davano due film e io volevo vedere Heristratus. Finì che vidi The Queen e per ben cinque volte!
Dove era girato? 
Era un film in bianco e nero a bassa definizione. In un’ inquadratura, “lei” scendeva da una scala mobile e io pensavo che non avrebbe mai toccato terra. Mi sono rispecchiato in quel film. Ho trovato che quel mondo mi appartenesse. Mi sentivo attratto. Sai, non c’è voluto molto tempo perché mi rendessi conto di essere bisessuale. C’ era qualcosa di quel mondo che mi attraeva.
Cos’ era? Il fascino della diversità? 
Era una diversità in molti campi. Mi piaceva la gente di quel mondo. Erano informatissimi su diverse cose, per esempio la musica. Ricordo che la buona musica si ascoltava soltanto nei locali gay a Londra.
Sì, è ancora così.
E’ quasi uno stereotipo, un cliché che tuttavia si basa su un dato reale. Di solito la buona musica esordisce nei locali gay. In quel periodo tutto era soul più che rhythm & blues. Non sono la stessa cosa. Poi si è passati alla disco music, ma a quell’ epoca era solamente soul….
Sì, come James Brown.
Come il James Brown d’ impatto, e quella musica, come ho già detto, la si poteva ascoltare solo nei club frequentati da francesi o nei locali gay. Nelle sale frequentate dagli eterosessuali la musica era molto tradizionale. In tutto questo c’ era un senso di teatralità, un che di crepuscolare con una venatura di tristezza, un senso di fine imminente. Era una specie di assalto finale. Ho provato quella stessa sensazione durante il mio primo soggiorno berlinese nel 1977. Anche lì si aveva coscienza di un crollo imminente, e la gente pensava quasi solo a divertirsi. Erano i giorni in cui nessuno sapeva veramente di cosa stesse parlando. Era come essere una domenica pomeriggio attorno a un tavolo, dopo pranzo…
Chissà che scena! 
Davvero incredibile.
E magari c’ erano anche delle casalinghe che ascoltavano le chiacchiere delle vecchie checche.
Sì. C’ era anche Kenneth Hall che era un travestito eterosessuale. Era davvero bizzarro.
Pensi che opere come The Queen possano avere influito sulla tua scelta di considerarti un alieno, di essere diverso?
Più che altro mi sentivo emarginato a causa dell’ indifferenza dei miei. Poi ho superato questa cosa e sono andato fino in fondo. Il senso di emarginazione ha fatto scattare in me la voglia di rompere con i tabù. Mi ricordo che fu una spinta molto forte. Volevo che i miei si accorgessero di me, inconsciamente era proprio quello che volevo. E’ un po’ quello che si sente nel tuo libro quando parli delle periferie. Il grigiore e il perbenismo mi infastidiscono. L’unico obiettivo di quella gente erano i Lloyds alla fine della strada. lo volevo semplicemente dare un calcio a tutto, tutto mi irritava. Quelli non avevano nessuna apertura mentale, non sapevano nulla. Io conoscevo Jack Kerouac e loro galleggiavano nella loro ignoranza. Immaginavo di essere Neil Cassidy che attraversava gli Stati Uniti in un piccolo furgone… Guardavo intorno e pensavo: “Come posso fuggire da questa trappola, da questo posto grigio pieno di menti grigie dove tutti temono qualsiasi innovazione e ogni cosa che possa modificare il loro stile di vita?” Ce l’avevo con tutti. Ho trovato meraviglioso il fatto che un uomo, Michael Fish, disegnasse abiti da donna per uomini. Gli comprai tre vestiti anche se non potevo permetterlo.
Poi hai successo, scappi e dimostri a tutti di poterlo fare. 
Sì.
E poi che cosa fai? Come vai avanti? Hai rotto con tutti i tabù. Sei diventato una pop star famosa. Dopo Ziggy Stardust che cosa ti ha spinto a continuare nella tua ricerca?
Volevo esplorare l’America. In realtà presi quella decisione dopo Ziggy. Nel mio tour ho toccato tantissime città degli Stati Uniti, tuttavia non avevo mai avuto modo di conoscere la realtà americana. Poi, nel ’73, avevo deciso di tornare negli Stati Uniti. Pensavo: “Finalmente ho la possibilità di capire la terra di Little Richard e Neil Cassidy. Voglio vivere in questo paese e diventare cittadino americano, magari…” E lì ho scoperto le droghe e mi sono ritrovato in un luogo dove non avevo pensato di andare. Sono state esperienze orribili fino al ’76-77.
Non ti hanno sviato dalla musica?
No, assolutamente. Ho scritto tantissimi pezzi.
E’ incredibile.
Sì. Non dimenticare che la cocaina ti rende più attivo, ti eccita, ti fa lavorare a ritmi vertiginosi, il che andava molto bene per me.
Usando cocaina non sei creativo ma lavori moltissimo. 
Sì, c’è stato un periodo in cui non dormivo magari per una settimana intera. Ho ancora molto materiale di quel periodo a casa.
Composto sotto l’ effetto della cocaina? 
Sì, ho scritto molto sotto l’ effetto della droga. E naturalmente ero molto influenzato da William Burroughs, che puoi capire solo quando sei fatto. Ero in grado di scrivere tre o quattro paragrafi su argomenti totalmente differenti, di tagliarli e mescolarli traendo ispirazione dalla nuova composizione. Era veramente stimolante. Pensavo: “Dio benedica Brion Gysin.” C’era un senso nel rispondere con il caos a quei tempi caotici. Era logico.
Come sei uscito dalla coca? 
È stata un’ esperienza terribile. Orrenda. Sconvolgente. Due o tre volte Sono andato in overdose. Ricordo che ero scosso da brividi, ansimavo, mi costringevano a camminare per tenermi sveglio, e mi facevano dei bagni caldi per superare la crisi. Un giorno Koko mi disse: “Devi lasciare questa città.” Vivevo a Los Angeles. Decisi di trasferirmi a Berlino. La consideravo una città stimolante. L’avevo scoperta durante un tour e l’ amavo dai tempi di I am a Camera, di lsherwood, di un certo tipo di cultura. Pensavo: “Berlino sarà la mia nuova musa, quella che mi sottrarrà alla droga.” Ed è stato proprio così. Ricordo che giravo con Iggy (Pop). Iggy era in uno stato pietoso, si faceva di eroina, e, sai, è molto dura quando ti fai di eroina… Poi ci siamo detti: “Adesso basta.” Ci siamo trasferiti a Berlino, abbiamo affittato due appartamenti e abbiamo intrapreso la lunga salita per uscire dalla droga.
E’ incredibile, visto che quando ti fai di coca, e vuoi smettere, hai un gran bisogno di bere. 
E’ proprio quello che mi è capitato.
Si beve per anestetizzarsi.
E’ vero. Riduci la quantità dl cocaina ma aumenti quella dell’ alcol. Così mi sono ritrovato sulla via dell’ alcolismo.
Bevi ancora? 
No, ho smesso completamente. L’ alcol mi faceva sentire depresso. E la depressione è ancora più terribile. Inoltre, l’ alcol influiva negativamente sul mio lavoro, mi toglieva lucidità. Sniffando cocaina hai l’ impressione di acquisire una grande lucidità. Il tuo pensiero risulta accelerato, la frammentazione che ne risulta è anche interessante, tuttavia è quasi impossibile raggiungere un flusso coerente. Parli tanto, sì, ma senza un filo logico, cercando di comunicare al tuo interlocutore qualcosa che nemmeno tu sai.
Ho capito. Ma la cosa che mi stupisce di più è il fatto che devi essere una persona incredibilmente forte per essere uscito da tutta questa merda: e che, mentre sei seduto davanti a me, dimostri ancora un’ irrefrenabile voglia di conoscere il mondo, te stesso e ogni cosa che ti circonda.

 

 

Se avete informazioni o materiale da inviare, scrivete a velvetgoldmine@velvetgoldmine.it

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